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L’altra Riva dell’Ilva

Annarita Digiorgio

Assolto l’ex proprietario Fabio Riva. È l’epilogo di un’inchiesta che ha segnato il destino di un’industria

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Arriva, nel giorno della nazionalizzazione dell’Ilva, un’altra assoluzione per Fabio Riva, l’ultimo proprietario di quella che era, e chissà se mai sarà più, la più grande acciaieria d’Europa. La Corte d’Appello di Milano lo ha assolto dall’accusa di bancarotta per il crac della holding Riva Fire che controllava l’Ilva fino al 2012, prima dell’esproprio di stato per decreto. La verità viene stabilita solo grazie alla scelta processuale di Fabio Riva di non seguire il fratello Nicola e lo zio Adriano (nel frattempo deceduto), che invece avevano preferito il patteggiamento. In un primo momento anche Fabio Riva chiese il patteggiamento per la stessa entità, ma fu respinto dal gip perché dichiarato incongruo. Il rito abbreviato ha portato all’assoluzione. 

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Arriva, nel giorno della nazionalizzazione dell’Ilva, un’altra assoluzione per Fabio Riva, l’ultimo proprietario di quella che era, e chissà se mai sarà più, la più grande acciaieria d’Europa. La Corte d’Appello di Milano lo ha assolto dall’accusa di bancarotta per il crac della holding Riva Fire che controllava l’Ilva fino al 2012, prima dell’esproprio di stato per decreto. La verità viene stabilita solo grazie alla scelta processuale di Fabio Riva di non seguire il fratello Nicola e lo zio Adriano (nel frattempo deceduto), che invece avevano preferito il patteggiamento. In un primo momento anche Fabio Riva chiese il patteggiamento per la stessa entità, ma fu respinto dal gip perché dichiarato incongruo. Il rito abbreviato ha portato all’assoluzione. 

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Nell’attesa di leggere le motivazioni della sentenza dei giudici della Corte d’Appello, quelle del primo grado hanno già riscritto la narrazione a furor di popolo degli spregiudicati imprenditori disposti a sacrificare vite umane in nome del profitto. Nelle 127 pagine il gup del primo grado Lidia Castellucci scrive non c’è stata la volontà della famiglia Riva di provocare la bancarotta, in quanto lo stato di insolvenza viene dichiarato da Ilva in Amministrazione straordinaria solo nel 2015, a un anno e mezzo dal commissariamento. Da allora Ilva ha cominciato a perdere altri 70-80 milioni al mese per il semplice motivo che, non attuando le prescrizioni ambientali, per rispettare i limiti emissivi, i commissari decisero di dimezzare la produzione tenendo fissi i costi (stipendi e consulenze). Del resto quando paga lo stato le perdite si mettono in conto, che poi è il vero motivo per cui oggi si va verso una rinazionalizzazione. Secondo i giudici di primo grado la proprietà Riva “a partire dal 1995 e fino al 2012 ha sostenuto costi in materia di ambiente ammontanti a oltre un miliardo di euro, e più di tre miliardi per l’ammodernamento e la costruzione di nuovi impianti”.

 
La stessa sentenza ha fissato che lo stabilimento di Taranto osservava, all’epoca dei fatti, i limiti emissivi previsti dalle leggi; e che aveva in gran parte anticipato, già nel 2011, le tecniche di seconda generazione che sarebbero entrate in vigore solo nel 2018. 

  
Dopo il sequestro dell’area a caldo ad agosto del 2012 erano stati programmati investimenti per altri 3 miliardi per introdurre le migliori tecnologie disponibili per abbassare l’impatto ambientale. Ma il 26 novembre 2012 il gip di Taranto sequestrò “come corpo del reato” i prodotti finiti, già pronti per la vendita, per un valore di 1 miliardo che l’azienda aveva destinato ai primi investimenti per l’attuazione del programma di risanamento. Il governo varò un decreto di sblocco, che il gip impugnò mantenendo il sequestro. Il 9 aprile 2013 la Corte costituzionale respinse le eccezioni di incostituzionalità sollevate dalla procura di Taranto, rilevando peraltro che le misure di risanamento ambientale (Aia) corrispondevano all’obiettivo della salvaguardia contestuale del diritto al lavoro e del diritto alla salute. Tuttavia il gip dispose un ulteriore sequestro preventivo “per equivalente” di 8,1 miliardi (annullato anni dopo dalla Cassazione). Il doppio di quelli che avrebbe dovuto investire ArcelorMittal, e quattro volte quelli previsti per l’investimento industriale dello stato oggi. 

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A questo punto tanto valeva nazionalizzarla direttamente nel 2013, quando invece il governo Monti prima – e Letta, Renzi e Gentiloni poi – decisero attraverso i famosi 12 decreti di risanarla e metterla in vendita. Risanamento che non fu mai attuato dallo stato, tanto che ArcelorMittal ha deciso di dileguarsi proprio perché, tolto lo scudo penale, non poteva pagare per i reati commessi durante la gestione dell’amministrazione straordinaria. Intanto fra Tar, Consiglio di stato, Corte d’appello e Cassazione, all’ennesima sentenza passata  per i Riva, il presupposto di quel commissariamento viene meno. Chissà cosa sarebbe stato di Ilva se il governo non avesse scelto di espropriargliela. 

  
Intanto ieri, mentre Riva veniva assolto, si firmava l’accordo tra Invitalia di Domenico Arcuri e ArcelorMittal attraverso il quale lo stato torna proprietario del 50 per cento dello stabilimento. La speranza è che la gestione pubblica non la riduca a una fabbrica di banchi a rotelle.

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