PUBBLICITÁ

Mps e Unicredit. Nulla di scontato

Mariarosaria Marchesano

I mercati sospettano che il patto tra Unicredit e il Monte sia certo ma non hanno fatto i conti con il grillismo. Ecco perché il matrimonio caldeggiato dal ministro dell'Economia è più difficile del previsto

PUBBLICITÁ

A guardare come ha reagito la Borsa all’addio di Jean Pierre Mustier a Unicredit – cioè con una fuga di investitori dalla banca di piazza Gae Aulenti, che ha bruciato più di 2 miliardi di capitalizzazione in due giorni, e una pioggia di acquisti speculativi su Mps – si potrebbe giungere alla facile conclusione che il matrimonio tra i due istituti sia ormai alle porte, benedetto dall’ex ministro del Tesoro, Pier Carlo Padoan, che di Unicredit sarà a breve presidente.  A volte, però, le cose, non sono esattamente come appaiono.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


A guardare come ha reagito la Borsa all’addio di Jean Pierre Mustier a Unicredit – cioè con una fuga di investitori dalla banca di piazza Gae Aulenti, che ha bruciato più di 2 miliardi di capitalizzazione in due giorni, e una pioggia di acquisti speculativi su Mps – si potrebbe giungere alla facile conclusione che il matrimonio tra i due istituti sia ormai alle porte, benedetto dall’ex ministro del Tesoro, Pier Carlo Padoan, che di Unicredit sarà a breve presidente.  A volte, però, le cose, non sono esattamente come appaiono.

PUBBLICITÁ

   

E ci sono almeno tre buone ragioni per le quali la decisione di Mustier rende certamente più probabile ma non affatto scontata l’operazione. La prima è che quando si legge che la strategia del Team 23, che è il nome che Mustier ha dato al suo secondo piano industriale, non corrisponde più al pensiero attuale del consiglio di amministrazione, si pensa automaticamente che questo spiani la strada verso fusioni e aggregazioni, che Mustier, invece, escludeva. Ma, come fa osservare un’analisi di Fidentiis, questa potrebbe essere la seconda ragione degli scontri tra Mustier e il cda. La gestione del banchiere francese, ricorda Fidentiis, “è sempre stata considerata in termini agrodolci, con alcune luci e molte ombre”.

 

PUBBLICITÁ

La vendita di attività molto redditizie, come Pioneer, Pekao e FinecoBank, per finanziare la ristrutturazione di un gruppo bancario  che dopo la grande crisi finanziaria era stato penalizzato da un’enorme quantità di crediti deteriorati, hanno lasciato l’amaro in bocca. E in ogni caso, il risultato di questa strategia (passata anche attraverso un imponente aumento di capitale) è stato un gruppo bancario solido ma che non guadagna abbastanza. “Dopo quattro anni di duro lavoro con il titolo che non si è ripreso affatto rispetto ai suoi pari, questo potrebbe essere il motivo iniziale degli scontri tra Mustier e i consiglieri”, conclude Fidentiis. Solo quando Mustier lascerà l’incarico (aprile del 2021) e sarà presentato un nuovo piano aziendale – il cui fulcro sia l’apertura a operazioni con partner esterni – si potranno valutare le opzioni offerte da uno scenario bancario sempre più in movimento. Certo, Mps rappresenta una possibilità fortemente caldeggiata dal Mef guidato da Roberto Gualtieri per il quale privatizzare l’istituto senese equivale a preservare la credibilità dell’Italia in Europa. Il ritorno sul mercato con la contestuale uscita di scena del Mef – che oggi controlla il 68 per cento di Mps – corrisponde all’impegno assunto dal governo con la Commissione europea nel 2016 al quale il ministro del Tesoro non intende però venir meno.

 

E qui si arriva alla seconda ragione per cui il finale del film non è già scritto. Il Movimento 5 stelle sta facendo pesare sempre di più nel governo il suo dissenso rispetto all’ipotesi di una privatizzazione, sicuramente perché preferirebbe vedere il Monte protagonista di un polo del credito pubblico e rivolto al Sud ma anche perché non vuole – dopo aver detto peste e corna di banche e banchieri – sentirsi complice di un’operazione in cui il compratore viene sussidiato dallo stato venditore. Così i pentastellati stanno spingendo per inserire nella legge di Bilancio un tetto di 500 milioni alle doti fiscali che il governo punta a dare alle banche per incentivare future aggregazioni. Rispetto alla cifra di oltre 3 miliardi di benefici fiscali che inizialmente è stata ipotizzata per spingere Unicredit a farsi avanti per il Monte  (insieme alle garanzie sui 10 miliardi di cause legali e a 2-3 miliardi di esborso cash per finanziare un aumento di capitale) la riduzione a 500 milioni rappresenta un chiaro segnale della volontà di andare in una direzione opposta rispetto al Mef. Se questo emendamento dovesse passare, infatti, l’appeal della banca senese agli occhi di qualsiasi compratore privato, non solo di Unicredit, diminuirebbe di colpo. Il che è  quello che vorrebbero i grillini per riproporre la via della banca pubblica, che, comunque, non dispiace anche a una parte del Pd, quella più legata al territorio toscano.  La terza ragione che dovrebbe suggerire cautela nel dare per fatte le nozze Unicredit-Mps, seppure questa opzione appaia oggi più credibile di ieri, è rappresentata dal decisore finale: l’assemblea degli azionisti di Unicredit, banca quotata che è una public company con investitori diffusi, molti dei quali esteri. “Riteniamo che l’assemblea di Unicredit possa votare solo operazioni che creino valore per gli azionisti”, osserva Intermonte in una ricerca. Come dargli torto?
 

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ