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Generali, Intesa e le altre. Bloccare la distribuzione dei dividendi?

Stefano Cingolani

La pandemia ha esasperato l’avversione ideologico-politica ai dividendi e alla loro distribuzione. Se da una parte sarebbe meglio incassare e aumentare consumi e risparmi, dall’altra resta vivo lo spettro dei subprime

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Se il denaro è lo sterco del diavolo, il profitto è la via che conduce all’inferno. Anche in Italia la pandemia ha esasperato l’avversione ideologico-politica ai dividendi e alla loro distribuzione agli azionisti. Finora sono stati sospesi molti miliardi di euro che avrebbero potuto sostenere la domanda interna. Intesa Sanpaolo era in grado di pagare 3,4 miliardi, Unicredit 1,4 miliardi, e via via Banca Mediolanum, Unipol, Ubi, solo per restare nel campo delle banche e delle assicurazioni. Ieri le Generali hanno riunito gli analisti, l’ad Philippe Donnet ha confermato il piano triennale e si è tenuto tutte le carte coperte. Non verrà ceduta Banca Generali, sulla Cattolica della quale detiene il 24,4 per cento siamo al wait and see, quanto agli allarmi del Copasir su complotti francesi non sono che rumori fuori scena.

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Se il denaro è lo sterco del diavolo, il profitto è la via che conduce all’inferno. Anche in Italia la pandemia ha esasperato l’avversione ideologico-politica ai dividendi e alla loro distribuzione agli azionisti. Finora sono stati sospesi molti miliardi di euro che avrebbero potuto sostenere la domanda interna. Intesa Sanpaolo era in grado di pagare 3,4 miliardi, Unicredit 1,4 miliardi, e via via Banca Mediolanum, Unipol, Ubi, solo per restare nel campo delle banche e delle assicurazioni. Ieri le Generali hanno riunito gli analisti, l’ad Philippe Donnet ha confermato il piano triennale e si è tenuto tutte le carte coperte. Non verrà ceduta Banca Generali, sulla Cattolica della quale detiene il 24,4 per cento siamo al wait and see, quanto agli allarmi del Copasir su complotti francesi non sono che rumori fuori scena.

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Donnet ha annunciato che nel biennio 2019-2021 i dividendi cumulativi andranno dai 4,5 ai 5 miliardi. Il primo semestre 2020 ha prodotto un utile di oltre un miliardo su un risultato operativo di 2,7 miliardi che resteranno in cassaforte in attesa di tempi migliori, in ossequio alle direttive dell’Ivass, l’istituto di vigilanza, il quale a sua volta ha applicato le raccomandazioni dell’Eiopa, l’autorità europea che già il 2 aprile scorso ha chiesto di sospendere la distribuzione. Il 27 maggio, poi, il Cers, il comitato europeo per il rischio sistemico, ha chiesto alle autorità nazionali di “astenersi” fino al primo gennaio da dividendi, riacquisto di azioni proprie e pagamento dei bonus ai manager.

 

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Il destino è comune, tuttavia le assicurazioni si lamentano perché a differenza dalle banche non hanno chiesto nessun allentamento dei vincoli patrimoniali, favorite anche dal non avere prestiti non performanti né un calo della domanda. In una prima fase le tedesche Allianz e Munich Re, la francese Axa e Generali, insomma le più grandi d’Europa, hanno deciso di andare avanti per la loro strada. La stretta successiva le ha indotte ad allinearsi: le rimostranze corporative, pur comprensibili, cedono comunque davanti al “bene comune”. Ma è davvero un bene? Secondo l’opinione più diffusa, meglio tenere il fieno in cascina e salvaguardare la solidità patrimoniale, nessuno può escludere che la lunga e profonda recessione non crei le premesse di una crisi. Prudenza, adelante con juicio.

 

Ma se rovesciassimo la logica e ci mettessimo nella parte bassa del sistema, là dove alloggiano gli azionisti? Potremmo dire che proprio ora che la liquidità delle famiglie è garantita soprattutto dai governi, vengono bloccati fior di miliardi privati preziosi per sostenere i redditi. Perché gli utili di Generali, Intesa, Unicredit non vanno a pochi ricchi pescecani della finanza. Anche il capitalismo italiano, seppur meno massificato di quello americano, non è più affare dei soliti noti. Due terzi dei 190 mila soci delle Generali sono italiani. Il 38,8 per cento dei titoli è nel portafoglio di fondi e investitori istituzionali (fondi pensione, casse di previdenza, fondazioni); il 25 per cento è al dettaglio come si dice in gergo, cioè nelle tasche di singoli azionisti. L’81 per cento di Intesa è diffuso sul mercato e avrebbe potuto ricevere 2,75 miliardi.

 

Solo il 13 per cento delle azioni di Unicredit è al dettaglio, il resto però è posseduto da fondazioni e grandi fondi di investimento. Il pregiudizio e lo stereotipo, insomma, dovrebbero cedere il campo di fronte alla nuova realtà. È vero, però, che una crisi grave come quella attuale pone tutti davanti a un dilemma non risolvibile. Se da una parte sarebbe meglio incassare e aumentare per questa via consumi e risparmi, dall’altra resta vivo lo spettro dei subprime. Allora giganti bancari e colossi assicurativi che sembravano solidissimi si sono sfarinati in una notte. Le autorità hanno responsabilità sistemiche diverse da quelle delle singole imprese. Non è facile trovare un punto di equilibrio, forse la via d’uscita sarebbe una maggiore flessibilità.

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