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Italia sempre in coda (e non per colpa del Covid)

Luciano Capone

Anche in questa crisi l'Italia rimarrà più indietro di tutti : alla fine del 2022 il pil sarà di 3,5 punti inferiore rispetto ai livelli pre pandemia, il peggiore in Europa. Ma non dipende dal coronavirus, le cause del declino italiano sono tutte interne

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Secondo le previsioni della Commissione europea, l’Italia uscirà dalla crisi Covid peggio di tutti gli altri paesi. Il 2020 farà registrare una recessione del 10 per cento, la peggiore in Europa dopo la Spagna (-12,4 per cento) dove però nei prossimi anni ci sarà una crescita più sostenuta (del 5 per cento). Da noi la ripresa sarà più bassa di 1,5-2 punti. Dal combinato disposto di discese ardite e lente risalite, l’Italia rimarrà più indietro di tutti: alla fine del 2022 il pil sarà di 3,5 punti inferiore rispetto ai livelli pre pandemia. Non è un trend nuovo, perché già prima della pandemia eravamo l’unico paese europeo che ancora non aveva raggiunto i livelli pre 2011.

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Secondo le previsioni della Commissione europea, l’Italia uscirà dalla crisi Covid peggio di tutti gli altri paesi. Il 2020 farà registrare una recessione del 10 per cento, la peggiore in Europa dopo la Spagna (-12,4 per cento) dove però nei prossimi anni ci sarà una crescita più sostenuta (del 5 per cento). Da noi la ripresa sarà più bassa di 1,5-2 punti. Dal combinato disposto di discese ardite e lente risalite, l’Italia rimarrà più indietro di tutti: alla fine del 2022 il pil sarà di 3,5 punti inferiore rispetto ai livelli pre pandemia. Non è un trend nuovo, perché già prima della pandemia eravamo l’unico paese europeo che ancora non aveva raggiunto i livelli pre 2011.

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Di crisi in crisi restiamo sempre più indietro. Ed è una costante, indipendente dal ciclo economico: decresciamo più velocemente degli altri quando le cose vanno male e cresciamo più lentamente quando vanno bene. A metà del 2020, in pieno lockdown, il pil pro capite italiano era precipitato ai livelli di fine anni Ottanta. Nessun altro paese sviluppato è tornato indietro di trent’anni, e non perché non ci siano state riduzioni dell’attività economica. Tutti hanno adottato forme di lockdown e registrato recessioni analoghe, ma sono tornati indietro di soli 5-10 anni perché negli anni precedenti hanno avuto una crescita del pil pro capite più sostenuta. Il declino italiano ha un’origine interna. Non è indotto da choc esterni, che sicuramente fanno accelerare la discesa, ma è determinato da criticità strutturali. Le stesse di sempre, elencate con facilità e rassegnazione: Pubblica amministrazione (secondo la Banca d’Italia le imprese italiane spendono l’1,7 per cento del pil per gestire la burocrazia), lunghezza dei processi, assenza di infrastrutture, scarsa concorrenza, pressione fiscale elevata, pochi investimenti in ricerca e sviluppo, nanismo delle imprese, bancocentrismo. In questo contesto la produttività non cresce, non c’è l’innovazione e le imprese preferiscono competere in settori protetti per succhiare rendite. L’ecosistema produttivo italiano è caratterizzato da assenza di dinamismo: nascono poche imprese e quelle che esistono non crescono e non falliscono, tante sopravvivono. E spesso lo stato, piuttosto che investire per migliorare le infrastrutture e far accrescere il capitale umano per aumentare il dinamismo, spende per salvataggi perpetui.

 

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Naturalmente anche la classe imprenditoriale ha delle responsabilità per la situazione attuale, ma bisogna fare attenzione a non confondere le cause con le conseguenze. In un recente commento sul tema il quotidiano Domani, come dimostrazione della pessima qualità degli imprenditori italiani segnalava la bassissima posizione dell’Italia nell’indice “Doing business” della Banca mondiale “nella materia più imbarazzante: il rispetto dei contratti. La reputazione internazionale degli imprenditori italiani – scrive Giorgio Meletti – è questa: hanno il maledetto vizio di pagare le fatture ai fornitori quando decidono loro e di onorare i contratti che firmano solo dopo aver perso una causa”. In realtà il problema è esattamente l’opposto: l’indice “enforcing contracts” della Banca mondiale misura l’inefficienza della Giustizia: ovvero il tempo e i costi per risolvere una controversia commerciale (in Italia ci vogliono 1.120 giorni, oltre il doppio che in Francia o Germania).

 

E’ possibile che ci sia una cattiva condotta da parte di pochi o tanti imprenditori, ma questa dipende dagli incentivi: una Giustizia che premia le imprese che si comportano male e penalizza quelle che pretendono il rispetto dei contratti. E con il Covid la situazione è destinata a peggiorare: da un lato con le imprese molto più indebitate di prima ci saranno più contenziosi e dall’altro i tribunali sono diventati ancora più lenti con le misure di distanziamento e il lavoro da remoto. Invece di mettersi a fare l’imprenditore e l’innovatore, per la crescita del paese è più necessario che lo stato faccia funzionare decentemente la giustizia.

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