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Lezioni dal primo lockdown per il governo

Paolo Manasse, G. Alfredo Minerva, Roberto Patuelli, Lorenzo Zirulia

Per limitare i costi economici è necessario saper individuare i settori essenziali attraverso criteri trasparenti

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La nuova ondata di epidemia di Covid-19 sta di nuovo ponendo la maggior parte dei paesi di Europa e America di fronte alla questione di come salvaguardare la salute pubblica minimizzando i costi economici della necessaria riduzione dei contatti sociali. Nella prima ondata, diversi paesi hanno implementato politiche di blocco (lockdown) di diversa intensità per fermare il contagio. Il distanziamento sociale ha inizialmente prodotto notevoli miglioramenti nell’arresto della epidemia, ma i costi economici sono stati molto elevati: il PIL è crollato il 10,6 per cento in Italia, il 9,8 in Francia e il 6 Germania, mentre solo il 4,3 negli Stati Uniti (fonte: Fmi). Come si temeva e annunciato da tutti gli osservatori, l’allentamento delle restrizioni in estate, il mancato potenziamento dei trasporti, la ripresa delle attività produttive e della scuola hanno portato alla ripresa dei contatti sociali e alla seconda ondata di contagio.

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La nuova ondata di epidemia di Covid-19 sta di nuovo ponendo la maggior parte dei paesi di Europa e America di fronte alla questione di come salvaguardare la salute pubblica minimizzando i costi economici della necessaria riduzione dei contatti sociali. Nella prima ondata, diversi paesi hanno implementato politiche di blocco (lockdown) di diversa intensità per fermare il contagio. Il distanziamento sociale ha inizialmente prodotto notevoli miglioramenti nell’arresto della epidemia, ma i costi economici sono stati molto elevati: il PIL è crollato il 10,6 per cento in Italia, il 9,8 in Francia e il 6 Germania, mentre solo il 4,3 negli Stati Uniti (fonte: Fmi). Come si temeva e annunciato da tutti gli osservatori, l’allentamento delle restrizioni in estate, il mancato potenziamento dei trasporti, la ripresa delle attività produttive e della scuola hanno portato alla ripresa dei contatti sociali e alla seconda ondata di contagio.

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Purtroppo, la questione di un nuovo lockdown è tornata di attualità. Ma cosa insegna la passata esperienza? In Italia, primo paese europeo in cui si è diffusa l’epidemia, il lockdown è stato particolarmente severo. Dal 10 marzo nel paese sono state applicate in modo uniforme restrizioni per impedire la diffusione dal Nord (Lombardia e Veneto) al resto del paese. Rafforzato il 22 marzo, il blocco ha risparmiato alcune attività essenziali, quelle che sono state identificate come soddisfacenti i bisogni primari della popolazione. Le eventuali nuove regole di chiusura di attività economiche dovrebbero fondarsi sui dati relativi alla frequenza di contagio registrate nelle diverse attività: dato lo scarso successo del tracciamento, non si sa se questi dati siano disponibili né se il governo li stia usando. Dovrebbero poi tener conto della diffusione dell’epidemia nelle diverse aree territoriali, anche in relazioni alle capacità del servizio sanitario locale: i dati qui sono disponibili. Infine, anche il criterio dei “bisogni essenziali” impiegato nel primo lockdown dovrebbe essere declinato in modo rigoroso e trasparente.

 

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Un’applicazione sbagliata, chiudere ad esempio attività chiave, quelle che forniscono beni intermedi direttamente o indirettamente utilizzati nelle attività essenziali, potrebbe comportare elevati costi economici. Inoltre, la mancanza di trasparenza sui criteri utilizzati per includere o escludere diverse attività può sollevare dubbi sull’indipendenza del governo dalle pressioni dei gruppi di interesse, desiderosi di evitare il blocco. In un recente lavoro ( “How to lockdown an economy: an input output analysis of the italian case”, Settembre 2020) abbiamo studiato come stabilire un criterio per dare la priorità alle diverse attività economiche durante la fase di blocco, sfruttando le informazioni contenute nelle tabelle input-output delle interdipendenze settoriali. L’obiettivo era identificare le industrie necessarie per soddisfare i bisogni primari della popolazione, come per esempio cibo, salute, energia, amministrazione. Nel lavoro rispondiamo a questa domanda: quali settori dovrebbero rimanere aperti per consentire a queste “attività essenziali” di operare al livello di attività desiderato (90-100 per cento del normale)? L’analisi ci consente di confrontare la nostra “classifica” con l’elenco delle attività essenziali stabilite nel primo lockdown di marzo dal governo e di valutare quanto “restrittive” siano state le scelte del governo. Otteniamo due principali risultati.

 

Il primo è che alcuni settori, in particolare l’edilizia, il settore immobiliare, la produzione di metalli di base, avrebbero dovuto figurare tra quelli cruciali, a causa del loro ruolo di input intermedi diretti e indiretti nella produzione di beni essenziali, e dunque il governo avrebbe dovuto lasciare aperte queste attività. Il secondo risultato è che le scelte del primo lockdown sono state decisamente restrittive: esse, infatti risultano compatibili con l’obiettivo di ridurre la produzione dei “beni essenziali” al di sotto dell’85 per cento del livello normale di produzione. Il criterio dei beni essenziali non é certamente l’unico possibile. Ad esempio, i dati delle relazioni produttive intersettoriali permettono anche di determinare il numero minimo di settori, e la loro identità, necessari per generare un livello obiettivo di pil, oppure di identificare i settori che devono poter operare, quando l’obiettivo è di ridurre al minimo le ore di lavoro (e dunque, in prima approssimazione i contatti) necessarie per raggiungere un dato obiettivo di pil.

 

Infine, la disponibilità dei dati sulle interdipendenze settoriali a livello regionale permetterebbe di disegnare misure restrittive più aderenti alle specificità del tessuto produttivo locale. C’è da augurarsi che eventuali nuove misure restrittive siano fondate sui dati di tracciamento e diffusione territoriale del contagio, sulla capacità dei sistemi sanitarie, sulle connessioni produttive intersettoriali. E’ essenziale che il governo condivida con il mondo della ricerca tutti i dati disponibili, e che espliciti i propri obiettivi e le analisi (se ci sono) su cui si basano le proprie decisioni.

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