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Franceschini vuole fare la Netflix italiana, ma già esiste: si chiama Rai

Luciano Capone e Carlo Stagnaro

O il ministro per i Beni culturali non si è accorto che sta chiedendo di istituire qualcosa che già esiste. Oppure ci sta dicendo che la Rai non sarà mai capace di “proiettare nel futuro” lo spettacolo italiano e raggiungere i giovani attraverso le nuove tecnologie. Non solo: è talmente inefficiente che Cdp, con soli 10 milioni, potrebbe fare ciò che la tv di Stato non è capace di fare con 2 miliardi all’anno

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Non sappiamo come reagiranno i partner europei, che stanno negoziando sui termini di Next Generation Eu, alla proposta di Dario Franceschini di usare i soldi dei frugali per creare “la Netflix della cultura italiana”. L’idea del ministro per i Beni culturali è quella di creare, a partire dai 10 milioni di euro affidati a Cassa depositi e prestiti, “una piattaforma digitale pubblica, a pagamento, la quale possa offrire a tutta Italia e tutto il mondo l’offerta culturale del nostro Paese”. Secondo gli interpreti del verbo franceschiniano questa piattaforma dovrebbe rivitalizzare e “proiettare nel futuro” lo spettacolo italiano rendendo disponibili tutti i contenuti (musica, teatro, danza e arti circensi) ai giovani “abili alle fruizioni su internet”.

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Non sappiamo come reagiranno i partner europei, che stanno negoziando sui termini di Next Generation Eu, alla proposta di Dario Franceschini di usare i soldi dei frugali per creare “la Netflix della cultura italiana”. L’idea del ministro per i Beni culturali è quella di creare, a partire dai 10 milioni di euro affidati a Cassa depositi e prestiti, “una piattaforma digitale pubblica, a pagamento, la quale possa offrire a tutta Italia e tutto il mondo l’offerta culturale del nostro Paese”. Secondo gli interpreti del verbo franceschiniano questa piattaforma dovrebbe rivitalizzare e “proiettare nel futuro” lo spettacolo italiano rendendo disponibili tutti i contenuti (musica, teatro, danza e arti circensi) ai giovani “abili alle fruizioni su internet”.

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Il problema non è tanto che questa specifica declinazione dello Stato imprenditore susciterebbe delle perplessità persino in Mariana Mazzucato, forse. Il problema è che, vuoi che Franceschini non se ne sia reso conto, vuoi che invece ne sia perfettamente consapevole e abbia inteso lanciare un’accusa tanto sotterranea quanto velenosa, la Netflix della cultura italiana, o qualcosa del genere, già esiste da circa 75 anni, e costa ai contribuenti attorno agli 1,8 miliardi di euro l’anno (su 2,5 miliardi di ricavi complessivi). E’ la cara, vecchia Rai. La Rai fa esattamente quello che Franceschini vorrebbe che facesse la “Netflix italiana”: attraverso le sue piattaforme online e tradizionali, diffonde contenuti, in parte prodotti in proprio e in parte acquistati da terzi. Attualmente, la Rai dispone di tre reti generaliste e undici semi-generaliste sul digitale terrestre e satellitare, dodici canali radiofonici, cinque piattaforme online. Attraverso tutto questo ben di Dio, la tv di stato trasmette contenuti (originali e non), con una speciale attenzione per i prodotti italiani, sia del passato sia contemporanei. Se, dunque, il governo intende utilizzare le “nuove tecnologie” per dare sollievo e visibilità al mondo della cultura, messo in ginocchio dalle restrizioni dovute al Covid, non deve far altro che chiedere alla Rai di fare quello che, peraltro, è già previsto nell’ambito del suo contratto di servizio. Contratto, vale la pena enfatizzarlo, che deriva da un affidamento diretto e non è passato attraverso alcun vaglio competitivo.

 

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Quindi, delle due l’una. O Franceschini non si è accorto che sta chiedendo di istituire qualcosa che già esiste: un po’ come se avesse invocato la costituzione di una FedEx all’amatriciana per il recapito dei pacchi, dimenticandosi delle Poste italiane. Oppure – da uomo intelligente e sottile quale è – ha voluto prendere una posizione coraggiosa, esprimendo in modo obliquo ciò che milioni di italiani pensano e dicono esplicitamente: la Rai non sarà mai capace di diventare una Netflix, di “proiettare nel futuro” lo spettacolo italiano e di raggiungere i giovani attraverso le nuove tecnologie. Non solo: è talmente inefficiente che Cdp, con soli dieci milioni di capitale, potrebbe fare ciò che l’azienda di Viale Mazzini non è capace di fare con quasi due miliardi all’anno.

 

Se fosse così, Franceschini farebbe bene a essere più esplicito e mettere sul piatto la privatizzazione della radiotelevisione pubblica, in modo da destinare il ricavato al finanziamento delle politiche di sostegno del settore della cultura e, più in generale, del sistema produttivo italiano. Anche perché al gettito della vendita si aggiungerebbe un risparmio plurimiliardario tutti gli anni. In questo disegno, la Netflix italiana made in Cdp – ovvero una Rai più agile e snella – sarebbe un ragionevole compromesso a tutela di (quei pochi) interessi pubblici che non possono essere tutelati se non attraverso un’azienda di stato. Presentata in questo modo, sarebbe un’operazione industriale convincente anche in Europa, soprattutto perché dopo aver privatizzato la Rai e risparmiato i miliardi del canone, per fare la Netflix italiana non ci sarebbe neppure più bisogno dei fondi del Next Generation Eu.

 

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