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Affari di famiglia

Stefano Cingolani

Andrea Agnelli dentro Stellantis e la nuova Esselunga di Marina Caprotti. Tra le imprese che hanno retto la crisi ora c’è un problema di successione

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Le piccole e medie imprese, le attività di famiglia, quelle in cui il patron per dirla alla francese ha in mano la proprietà e la gestione, hanno tenuto in piedi l’Italia prima della pandemia, ora si sono rimboccate le maniche, anche se soffrono e chiedono aiuto. Sono il pilastro del secondo paese manifatturiero d’Europa, ma ormai da decenni rappresentano anche il cuore della cosiddetta “questione settentrionale” e il campo di battaglia della politica, i loro interessi determinano gli equilibri dei governi per lo meno dalla fine della Prima Repubblica. Quante sopravviveranno alla più grave crisi degli ultimi ottant’anni? E quante perderanno la spinta propulsiva che le ha tenute in piedi? Secondo i dati raccolti dalla Banca d’Italia e da Prometeia, il 70 per cento delle aziende italiane con più di 50 dipendenti (quindi non solo le microimprese) è di tipo familiare, il 53 per cento degli imprenditori italiani ha più di 60 anni e solo il 2 per cento ha pianificato la successione dei beni familiari. Al centro del sistema industriale c’è un problema generazionale che si aggiunge al nanismo, al gap digitale, a quel mix di prodotti e a quel modo di produrli che non reggono alle sfide del Duemila. Non tiriamo in ballo la solita globalizzazione o la solita Cina, gettiamo piuttosto uno sguardo dentro noi stessi.

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Le piccole e medie imprese, le attività di famiglia, quelle in cui il patron per dirla alla francese ha in mano la proprietà e la gestione, hanno tenuto in piedi l’Italia prima della pandemia, ora si sono rimboccate le maniche, anche se soffrono e chiedono aiuto. Sono il pilastro del secondo paese manifatturiero d’Europa, ma ormai da decenni rappresentano anche il cuore della cosiddetta “questione settentrionale” e il campo di battaglia della politica, i loro interessi determinano gli equilibri dei governi per lo meno dalla fine della Prima Repubblica. Quante sopravviveranno alla più grave crisi degli ultimi ottant’anni? E quante perderanno la spinta propulsiva che le ha tenute in piedi? Secondo i dati raccolti dalla Banca d’Italia e da Prometeia, il 70 per cento delle aziende italiane con più di 50 dipendenti (quindi non solo le microimprese) è di tipo familiare, il 53 per cento degli imprenditori italiani ha più di 60 anni e solo il 2 per cento ha pianificato la successione dei beni familiari. Al centro del sistema industriale c’è un problema generazionale che si aggiunge al nanismo, al gap digitale, a quel mix di prodotti e a quel modo di produrli che non reggono alle sfide del Duemila. Non tiriamo in ballo la solita globalizzazione o la solita Cina, gettiamo piuttosto uno sguardo dentro noi stessi.

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L’impresa privata nasce familiare e spesso resta tale anche quando cresce fino a diventare una multinazionale. Il 29 settembre le agenzie hanno battuto la notizia che del consiglio di amministrazione di Stellantis fa parte non solo John Elkann, presidente operativo, ma anche il cugino Andrea Agnelli, presidente della Juventus. Dunque, il nipote di Gianni, detto l’Avvocato, e il figlio di Umberto, suo fratello, chiamato il Dottore, saranno al vertice del gruppo automobilistico frutto della fusione tra Fiat Chrysler e Peugeot Citroën. Nel cda composto da undici membri, c’è anche Robert Peugeot, erede dell’antica famiglia ugonotta che non si piegò agli invasori tedeschi, ma non ha poteri esecutivi, riservati all’amministratore Carlos Tavares il manager spagnolo che oggi guida la Psa e a John Elkann. E’ stato scelto un nome latino dal sapore new age per un colosso che sarà il numero due al mondo dopo la Volkswagen. Anche Volkswagen era nata da un imprenditore rampante come Ferdinand Porsche, e con la benedizione di Adolf Hitler, nella quale gli eredi Porsche-Piëch, finita l’epurazione post bellica, sono tornati al vertice come azionisti e come gestori, non risparmiando gelosie, colpi bassi, conflitti di interesse tra i rami della numerosa famiglia. La Bmw è saldamente in mano ai fratelli Quandt, il cui nonno fu tra i principali sostenitori del nazismo, non parliamo dei Krupp e dei Thyssen che poi si sono maritati. La dinastia Wallenberg in Svezia controlla banche e industrie, Ingvar Kamprad è stato il padre padrone della Ikea che ha lasciato ai tre figli, azionisti, ma non gestori. La famiglia Besnier possiede in modo totale Lactalis, che in Italia ha Parmalat e Galbani. I Cadbury in Inghilterra erano i re del cioccolato prima di vendere alla Kraft nel 2010. Non solo in Europa: negli Stati Uniti, che durante la Grande Depressione degli anni Trenta hanno teorizzato e messo in pratica la separazione tra proprietà e gestione con la public company (“l’azienda di nessuno” secondo Bruno Visentini fautore della “forza virile dell’imprenditore”), ebbene anche là il colosso alimentare Mars o il primo gruppo di supermercati, Walmart, sono imprese familiari sia pur gigantesche che fanno capo rispettivamente ai Mars e agli Walton. I Ford restano azionisti di riferimento del campione americano dell’auto e William Clay Junior detto Bill, pronipote di Henry, il fondatore, è stato al vertice dal 1999 al 2006. Non sono eccezioni: due terzi del prodotto lordo negli Usa nasce da imprese familiari; in Europa esse generano la metà dei posti di lavoro privati. Potremmo continuare, l’elenco diventa sterminato se ci trasferiamo in Asia (Giappone, Corea, Cina, India, Indonesia). Insomma, l’Italia non è anomala, il capitalismo ha molte facce anche per il modo in cui si manifestano il diritto di proprietà e la gestione degli affari. Tuttavia c’è un punto in comune: lo spirito imprenditoriale; esso nasce in famiglia anche se non si trasmette con il dna. Lo spiega con taglio accademico, ma anche divulgativo il libro “Family business, manuale di gestione delle imprese familiari” curato da Fabio Corsico insieme a Chiara Acciarini ed Enzo Peruffo e pubblicato dalla Luiss University Press.

 

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“Io sono un manager e so che non sarei in grado di fare l’imprenditore”, dice Corsico al Foglio. Torinese, direttore delle relazioni esterne per il gruppo Caltagirone, a 47 anni ha alle spalle una ricca collezione di esperienze in grandi imprese, nella Pubblica amministrazione, in consigli di amministrazione, ma non ha mai pensato di aprire un’azienda di famiglia. Molti ci hanno provato e non ci sono riusciti. E si possono inanellare grandi nomi come Cesare Romiti dopo l’uscita dalla Fiat. Hanno funzionato alcuni management buyout (cioè alti dirigenti hanno comprato e rilanciato l’impresa lasciata dai precedenti azionisti), il caso più clamoroso è Prysmian, la ex Pirelli Cavi, leader mondiale nel suo campo. Tuttavia restano eccezioni e in ogni caso ci vuole il sacro fuoco. In fondo è quel che teorizza Joseph Alois Schumpeter. Il ciclo descritto dal pensatore austriaco, che ha fatto fortuna in America, parte dalla “creazione di cose nuove”, è questa la funzione dell’imprenditore innovatore che, scrive Schumpeter, “non può a lungo termine essere esaurita all’interno della famiglia”. Dunque, l’impresa cresce, la proprietà si amplia e si diffonde, fino a disperdersi in mille rivoli: “L’immagine popolare della dinastia industriale che domina da una posizione sicura finisce per essere quindi necessariamente falsa”. Questo schema teorico si è realizzato nella storia, ma solo in parte, la realtà come sempre è ibrida e complessa. In Italia ormai da molto tempo (in sostanza dagli anni Ottanta del secolo scorso) si è bloccata la seconda fase, quella che conduce oltre la porta di casa fino alla formazione di grandi imprese. Le stesse privatizzazioni che avevano l’ambizioso compito, come scrisse Romano Prodi, di dare nuovi padroni al capitalismo italiano, non hanno raggiunto questo scopo. La mutazione dei Benetton dalla manifattura ai servizi è un esempio interessante, ma le vicende di Telecom rappresentano il fallimento del modello public company.

 

Molti i problemi irrisolti, i principali sono il buco generazionale, la successione, la modernizzazione, la taglia. Cominciamo dall’invecchiamento. Si sono estinte o trasformate radicalmente molte grandi famiglie del primo capitalismo (Pirelli o Marzotto, per fare due esempi); operano ancora i protagonisti del miracolo economico che hanno contribuito alla ripresa dopo la Seconda guerra mondiale e al boom degli anni Sessanta (pensiamo ai siderurgici del nord come Arvedi o ai costruttori come Caltagirone), tuttavia la gran parte di loro ha mollato (si pensi ai Lucchini o ai Merloni). I rampanti condottieri degli anni Ottanta come Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti sono più che ottantenni. Nel decennio seguente nuovi virgulti dell’industria sono diventati alberi robusti, anch’essi però non più giovani (Alberto Bombassei della Brembo è nato nel 1940). La generazione successiva non ha dato gli stessi frutti. Ci sono ragioni storiche, sociologiche, culturali; figli degli imprenditori si sono laureati alla Bocconi, hanno frequentato Cambridge o Harvard per il master, hanno fatto fortuna nella finanza; per tornare in azienda ci vuole, appunto, il sacro fuoco. Corsico è convinto che le cose stiano cambiando tra i più giovani, lo si vede dal boom delle start-up; non tutte hanno successo, come è logico, tuttavia è risorta la voglia di inventare, innovare, produrre, ciò vale non solo nel mondo digitale, ma anche nella manifattura, persino l’agricoltura o l’artigianato attraversano una nuova primavera.

 

L’invecchiamento delle imprese esistenti pone un serio problema di successione. Gli Agnelli lo hanno risolto creando una complessa struttura proprietaria: al vertice la Dicembre, l’accomandita degli eredi dell’Avvocato guidata da John Elkann, la quale possiede il 38 per cento della società olandese, il tronco dal quale si diramano tutti i rami della famiglia, a cominciare dai successori di Umberto, cioè Andrea Agnelli e la sorella Anna. Poi c’è la Exor che controlla la Fca e con il 14 per cento avrà il pacchetto principale del nuovo gruppo dopo la fusione con la Psa. Una piramide per tenere insieme una famiglia composta da oltre 100 membri. Non è così vasta la dinastia di Leonardo Del Vecchio, imprenditore di prima generazione, tuttavia anche lui ha un problema, tanto più dopo le nozze tra Luxottica e la francese Essilor. Ha diviso nella Delfin, holding lussemburghese, le quote tra i sei figli nati da tre diverse unioni, ma due anni fa ha fatto entrare nella holding, e dalla porta principale, la sua ultima consorte Nicoletta Zampillo. Nessuno dei figli allo stato attuale può prendere il suo posto tanto meno nel nuovo gruppo Essilor. Il primogenito Claudio dopo la rottura avvenuta vent’anni fa è andato a New York e ha acquistato la Brooks Brothers che ha vestito Abraham Lincoln e Gianni Agnelli: con la pandemia è finita in amministrazione controllata e ad agosto è stata ceduta a due società statunitensi. Nel gruppo e in famiglia è emersa la figura di un manager: Francesco Milleri incoronato di fatto da Del Vecchio come suo successore operativo. La trasmissione familiare ha funzionato, invece, alla Ferrero: dopo la morte di Michele e la prematura scomparsa del primogenito Pietro, la proprietà passa a Giovanni, nato nel 1964, scrittore per piacere e vocazione, che imprime una forte spinta internazionale e affida la gestione a un manager. La Esselunga, deceduto il fondatore Bernardo Caprotti, è rimasta a lungo in bilico anche per difficili rapporti in famiglia, ma ora è nelle mani di Marina figlia della seconda moglie Giuliana Albera, dallo scorso giugno presidente esecutivo. Berlusconi ha messo in plancia di comando la primogenita Marina. De Benedetti ha litigato con i suoi rampolli che non amavano la Repubblica. Non c’è un unico modello, dunque, ma esistono costanti che ruotano attorno all’assetto giuridico e finanziario, ai rapporti umani, all’equilibrio tra proprietà e gestione mai stabilito una volta per tutte. Tuttavia, alla fin fine della fiera, si torna allo spirito imprenditoriale. Ciò vale anche per combattere il nanismo?

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La taglia non è una fisima di chi è rimasto orfano di Agnelli, Pirelli o magari dell’Iri; no, una solida e consistente struttura è fondamentale per affrontare le nuove sfide: innovazione, digitale, investimenti, capitale, marketing, rete distributiva e altro ancora. Piccolo oggi non è più bello. Far da soli è una cambiale scaduta. In Italia ci sono 8-900 imprese con un fatturato che va dai 200 milioni a un miliardo di euro, se domani ve ne fossero 400 con un fatturato tra 400 milioni e 4 miliardi l’economia italiana farebbe un salto di qualità. Ciò non significa selezione darwiniana, ma crescita. La sindrome della monade è stata curata dai distretti, una formula organizzativa di successo, che ha consentito di crescere, mettersi in relazione con le altre imprese, ma anche con le università, con le istituzioni pubbliche, con le banche, con il mondo oltre confine. Da qui si è passati alle filiere produttive, quelle italiane si sono inserite nella catena europea e internazionale del valore, in modo proficuo. Una catena che si è spezzata e va ricostruita, non solo riparata. La rivoluzione digitale, i cambiamenti che vengono dal lato della domanda, e adesso la pandemia, richiedono un’altra dimensione. La formula vincente è la piattaforma che implica una trasformazione profonda nel modo di organizzare, gestire, controllare, possedere persino un’azienda. Secondo molti studiosi è un paradigma che vale per la finanza e per la manifattura, per la produzione immateriale come per la meccanica. Ne è convinto Giuseppe De Rita secondo il quale è decisivo individuare i soggetti protagonisti del cambiamento: non più la grande impresa tradizionale, ma nemmeno le nicchie di eccellenza o i cespugli che si trasformano in macchia mediterranea per usare alcune metafore del Censis. La rinascita ha bisogno di una levatrice: può essere lo stato, la mano pubblica in senso lato? Più che soldi occorre un clima favorevole non solo e non tanto alla fondazione, ma allo sviluppo e al rafforzamento delle imprese, sottolinea Fabio Corsico. Un clima che in Italia non c’è più da parecchio tempo.

 

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Il “popolo delle partite Iva” ribolle e si ribella, minaccia, chiede, pretende: meno fisco, più sostegni (non li chiama sussidi ma tant’è), trasferimenti a fondo perduto, aumenti di capitale finanziati dallo stato (cioè dai contribuenti che pagano le tasse), e soprattutto meno imposte e meno contributi. Sono in grado i corpi intermedi di intercettare i nuovi processi, dar loro voce (che non siano le solite lamentele, i piagnistei, l’eterno rivendicazionismo), organizzarli, sostenerli? Esiste una classe imprenditoriale in grado di farsi kennediana e chiedere non quello che il resto del paese può fare per lei, ma quello che lei può fare per l’Italia? La risposta immediata è che ha già fatto molto, ha dato e non ha ricevuto abbastanza, con buona pace di JFK. Un atteggiamento che tende a sottovalutare l’impatto della trasformazione in corso: i prodotti a basso valore aggiunto vengono dall’Asia, quelli intermedi si possono fabbricare ovunque con le stampanti 3d, le nicchie d’eccellenza non bastano, l’innovazione ristagna. “Gli italiani sono abituati, fin dal Medioevo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”, ha scritto lo storico Carlo Maria Cipolla. Ciò non è avvenuto per un qualche dono sceso dal cielo, ma per l’amalgama di spirito e cultura imprenditoriale, ambiente socio-politico, domanda di quelle cose belle dal resto del mondo. Nessuno garantisce che, sotto l’effetto di choc esterni e di debolezze interne, l’antica maionese non impazzisca.

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