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Si possono garantire investimenti e concorrenza oltre la rete unica

Carlo Stagnaro e Sergio Boccadutri

L’uovo di Colombo per modernizzare competendo è una grande infrastruttura nazionale di co-investimento

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Il dibattito sulla rete unica sembra aver assunto le sembianze di un fiume carsico, ma sicuramente tornerà presto a infiammare le pagine dei giornali. Uno dei più importanti e lucidi protagonisti di questo dibattito, il presidente di OpenFiber Franco Bassanini, ha dichiarato che “una rete unica, indipendente, wholesale only, tutta in fibra, sarebbe utile al paese. Se non si potesse fare, allora meglio continuare con la competizione infrastrutturale”.

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Il dibattito sulla rete unica sembra aver assunto le sembianze di un fiume carsico, ma sicuramente tornerà presto a infiammare le pagine dei giornali. Uno dei più importanti e lucidi protagonisti di questo dibattito, il presidente di OpenFiber Franco Bassanini, ha dichiarato che “una rete unica, indipendente, wholesale only, tutta in fibra, sarebbe utile al paese. Se non si potesse fare, allora meglio continuare con la competizione infrastrutturale”.

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Queste parole rappresentano contemporaneamente un punto di svolta nel confronto pubblico e una presa d’atto della realtà. Da un lato, infatti, suggeriscono che la pretesa di abbandonare il paradigma europeo della competizione infrastrutturale per fare un salto nel vuoto della rete unica poggia su un terreno ancora fragile. Dall’altro, mostrano la consapevolezza delle enormi difficoltà e dei rischi insiti nel progetto di creare un monopolio pubblico. Quale può essere una via d’uscita da questo apparente vicolo cieco in cui sembra essersi infilato il governo? Intanto, rendersi conto che il punto dove ci troviamo è figlio delle convinzioni e delle tecnologie disponibili anni fa, quando venne adottato il Piano per la Banda ultralarga (Bul) per cablare il paese. Oggi le aree bianche possono essere raggiunte efficacemente anche con tecnologie Fwa (Fixed wireless access), all’epoca non contemplate. La mappatura andrebbe pertanto aggiornata dato che è la base di partenza dei bandi del Piano Bul: il pluralismo delle infrastrutture (di cui quel piano era espressione) è anche pluralismo di tecnologie. Inoltre, quando si parla di concorrenza infrastrutturale non ci si riferisce solo alla guerriglia tra Tim e OpenFiber ma anche, e soprattutto, alla concorrenza tra operatori verticalmente integrati, perché se ognuno ha una sua rete, come nel mobile, la concorrenza a livello retail è più efficace, consentendo maggiori spazi di autonomia in termini di prezzi e qualità. Inoltre, questo consente anche il confronto competitivo tra modelli di business diversi – operatori infrastrutturati contro puri retailer – da cui possono nascere innovazioni di prodotto e di processo. Quindi la domanda torna – finalmente – quella del 2015: come garantire un adeguato percorso di infrastrutturazione nazionale, senza giocare al piccolo chimico con la governance del settore e senza ampliare la già enorme incertezza regolatoria, che inevitabilmente frena gli investimenti? L’uovo di Colombo può trovarsi in una parola, rilanciata dal nuovo codice europeo delle comunicazioni elettroniche: il co-investimento. Dal momento che la stragrande maggioranza dei costi d’investimento in fibra consiste nelle opere civili e di scavo, gli operatori che co-investono possono condividere i costi comuni e nondimeno posare fili di fibra proprietaria e competere l’un l’altro.

 

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Una versione meno evoluta di co-investimento si è già vista in Italia con la joint-venture FlashFiber di Tim e Fastweb, approvata con condizioni dall’Antitrust italiano. Si tratta, però, di un modello opposto a quello wholesale only della rete unica: se con il co-investimento ogni operatore ha la sua rete, con il modello wholesale only nessuno ha la propria rete. L’inefficienza, semmai, nasce dalla coesistenza, nelle stesse aree, di questi due modelli alternativi. Non solo per la duplicazione infrastrutturale e di costi (e disagi per i lavori), ma per l’eccesso di capacità delle reti e per la inevitabile conseguenza di deprimerne il valore e ritardare investimenti in nuove aree. La soluzione consiste allora nel costruire un modello ibrido che abbia gli aspetti positivi dell’operatore whoelsale only (cioè economizzare i costi comuni) e quelli del co-investimento (mantenere una forte concorrenza infrastrutturale assieme alla concorrenza nei servizi). Detta con parole semplici significa immaginare una infrastruttura aggregata su base nazionale che offra due opzioni agli operatori (peraltro dando la possibilità di cambiare idea nel corso del tempo): (i) chiedere l’accesso all’infrastruttura di terzi oppure (ii) avere il proprio filo di fibra proprietaria all’interno della canaletta condivisa. Se Tim e Cdp si stanno muovendo in questa direzione, allora bisogna essere onesti e chiamare le cose col loro nome, per evitare di alimentare un dibattito ormai superato. Non si tratta di una “rete unica” ma di una rete di reti, con una concorrenza che, alla fine, ne può addirittura uscire rafforzata. Ne deriva anche che l’enfasi sull’integrazione verticale ne uscirebbe depotenziata, perché essa rappresenta un problema concorrenziale solo in presenza di condizioni monopolistiche. La stessa commissaria europea alla concorrenza, Margrethe Vestager, ha dichiarato a Bloomberg che – in linea generale – il punto focale è se il wholesaler sia indipendente ovvero se abbia legami verticali specifici con chi vende servizi, lasciando così la porta aperta all’ipotesi del co-investimento. Il co-investimento non è una forma di perfetta concorrenza infrastrutturale, ma è una diversa modalità di concorrenza infrastrutturale “corretta” dall’incertezza della domanda di banda ultralarga. Proprio tale incertezza della domanda ha portato il legislatore europeo, sulla scorta di quanto osservato in molte realtà, a prevedere la possibilità di accordi comuni, che consentono non solo la condivisione di costi e rischi, ma anche la possibilità di partecipare all’investimento per le imprese più piccole e soprattutto quella di promuovere una concorrenza sostenibile a lungo termine nelle aree dove attualmente la domanda è scarsa.

Accordi di questo tipo sono stati realizzati in Francia, Germania e Spagna, con ottimi risultati sia in termini di accelerazione nella realizzazione dell’infrastruttura, sia di stimolare la partecipazione di operatori di dimensioni inferiori, anche verticalmente integrati. Il co-investimento è un modello adeguato soprattutto alle aree dove la domanda è relativamente bassa. Nelle zone più densamente popolate ed economicamente avanzate – come le metropoli – le infrastrutture concorrenti tendono nel breve-medio periodo a essere utilizzate pienamente. Una volta realizzata la rete, ogni impresa partecipante può offrire direttamente servizi agli utenti finali, ovvero cedere l’utilizzo della propria infrastruttura a operatori locali che offrono servizi personalizzati alla clientela. Quindi, il co-investimento permette di coniugare gli obiettivi politici di copertura del territorio nazionale col mantenimento dei presidi concorrenziali esistenti e con un disegno di mercato coerente con quello adottato nel resto d’Europa e del mondo. Inoltre, trattandosi di un modello aperto, esso consente la partecipazione anche di operatori che vogliano entrare in una fase successiva del progetto, oppure vogliano concentrarsi su territori specifici. Dal punto di vista normativo, la proposta dovrebbe essere approvata dall’Agcom e sottoposta quindi preventivamente a una consultazione aperta, a valle della quale la stessa autorità potrebbe chiedere opportune modifiche. In questo contesto le garanzie sia per gli operatori che partecipano al co-investimento, che per quelli che – per dimensioni e caratteristiche proprie – intendono semplicemente acquistare servizi passivi in fibra, potrebbe condurre a un rafforzamento l’Organo di Vigilanza sulla parità di accesso alla rete Tim, che supporta l’attività dell’Agcom, che è chiamato a garantire la terzietà della rete e che, proprio per questa ragione, potrebbe essere allargato agli altri partecipanti al co-investimento. Una grande infrastruttura nazionale di co-investimento può essere efficiente. Ma non chiamatela “rete unica”.

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