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Modello Mose/2

Difendersi dal mare si può

Il problema dell’acqua alta a Venezia non va studiato con la chiave dell'incubo climatico ma con quella dell’ingegneria

Umberto Minopoli

Lo show di Genova e Venezia ci ricorda che l’ambientalismo migliore è quello che non asseconda la natura

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L’acqua alta e la sommersione delle città costiere, effetto dello scioglimento dei ghiacciai, è diventato col tempo la narrazione-incubo del riscaldamento e del cambio climatico. Eppure ci sono aree del mondo in cui questo problema è, naturale o antropico che sia, esistenziale: la catastrofe della sommersione è connaturato alla vita quotidiana. Pensiamo all'Olanda e ai Paesi Bassi per non andare a tantissime altre aree del mondo. Venezia convive (malissimo) con l’acqua alta dal V sec D.C. E, purtroppo, la gravità del fenomeno, naturale e non antropico, non segue il timing del global warming: l’evento di acqua alta più catastrofico a memoria dei viventi a Venezia è quello del 4 novembre 1966, quasi 60 anni fa.

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L’acqua alta e la sommersione delle città costiere, effetto dello scioglimento dei ghiacciai, è diventato col tempo la narrazione-incubo del riscaldamento e del cambio climatico. Eppure ci sono aree del mondo in cui questo problema è, naturale o antropico che sia, esistenziale: la catastrofe della sommersione è connaturato alla vita quotidiana. Pensiamo all'Olanda e ai Paesi Bassi per non andare a tantissime altre aree del mondo. Venezia convive (malissimo) con l’acqua alta dal V sec D.C. E, purtroppo, la gravità del fenomeno, naturale e non antropico, non segue il timing del global warming: l’evento di acqua alta più catastrofico a memoria dei viventi a Venezia è quello del 4 novembre 1966, quasi 60 anni fa.

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Qual è il punto? Che il problema dell’acqua alta è un fenomeno che va studiato con una chiave diversa: l’ingegneria. E che difendersi dal mare e dalla sommersione si può. Non è una maledizione divina o un destino catastrofico dovuto al cambio climatico irreversibile. Il Mose è stato contrastato da veleni estranei alla tecnologia, da miserie ideologiche e da un sistema di regole e leggi, maledettamente votato al nulla movere, il modo peggiore di difendere l’ambiente: non toccarlo, lasciando alla Natura di fare il suo corso, difendendola dall'intervento dell'uomo invece che, come narra la storia del progresso, da se stessa.

 

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Oltre che questa lezione di ambientalismo fattivo, il Mose, per noi italiani, dice altro. Esso si attiva negli stessi giorni del Ponte San Giorgio a Genova: un’altra opera di ingegneria “miracolosa” (per l’Italia) nei tempi e nei modi di realizzazione. Entrambe le opere non devono nulla a un particolare e antropologico “genio italico”. Anzi, devono tutto a un “miracolo” profano: il rientro di opere e lavori strategici nella specialità (per l’Italia) della normalità: il primato del fare sulla burocrazia, della tecnica sulla filosofia, dell'opera e del lavoro (dopo che un progetto è stato validato, in tempi umani, dalla verifiche ambientali) sul virus del nimby (“non nel mio giardino”) e, spesso, addirittura dell'angoscia chiamata Banana (Build absolutely nothing anywhere near anything”, ossia “non costruire assolutamente nulla da nessuna parte, vicino ad alcunché”). Ecco la lezione di Genova e Venezia. Se la guardiamo nella prospettiva delle opere future del Recovery Fund, è davvero un’altra Italia che dovremmo augurarci si  prefiguri all’orizzonte.

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