PUBBLICITÁ

La decrescita è infelice

Laudato si', il pil

Luciano Capone e Carlo Stagnaro

Da Bob Kennedy a Papa Francesco, passando per Beppe Grillo: da tempo la crescita economica è messa in discussione. È vero che il pil misura solo la ricchezza di un paese, ma è questa a determinare benessere, salute, istruzione, felicità. Un’altra enciclica è possibile. Indagine

PUBBLICITÁ

I nemici del capitalismo e i loro argomenti esistono da prima che il capitalismo nascesse. Da sempre il meccanismo che nella storia dell’umanità ha portato più benessere a più persone nel più breve tempo viene messo in discussione: va “ripensato” o “superato”, in ogni caso bisogna “cambiare paradigma”. Si devono abbandonare i fondamenti del suo credo, in particolare il “dogma della crescita” e in particolare ciò che serve a misurarla: il pil (prodotto interno lordo). Gli attacchi al pil e alla crescita si amplificano e intensificano durante le crisi economiche, paradossalmente proprio quando il pil si contrae. Cioè quando c’è de-crescita (infelice). L’obiettivo non sarebbe quello di migliorare o riformare il sistema per tornare presto a crescere, ma edificare un sistema radicalmente diverso su nuove e non meglio specificate fondamenta.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


I nemici del capitalismo e i loro argomenti esistono da prima che il capitalismo nascesse. Da sempre il meccanismo che nella storia dell’umanità ha portato più benessere a più persone nel più breve tempo viene messo in discussione: va “ripensato” o “superato”, in ogni caso bisogna “cambiare paradigma”. Si devono abbandonare i fondamenti del suo credo, in particolare il “dogma della crescita” e in particolare ciò che serve a misurarla: il pil (prodotto interno lordo). Gli attacchi al pil e alla crescita si amplificano e intensificano durante le crisi economiche, paradossalmente proprio quando il pil si contrae. Cioè quando c’è de-crescita (infelice). L’obiettivo non sarebbe quello di migliorare o riformare il sistema per tornare presto a crescere, ma edificare un sistema radicalmente diverso su nuove e non meglio specificate fondamenta.

PUBBLICITÁ

 

Eppure, proprio l’epidemia Covid-19 e il lockdown per contenerla ci hanno mostrato il volto tutt’altro che gradevole di un mondo dove forse il cielo è più blu e gli uccellini cantano più forte, ma la libertà di movimento è impedita, il sistema produttivo s’inceppa e i consumi crollano. E invece: “Crescita, ma di che cosa?”, si è chiesto Beppe Grillo, in un incontro al Parlamento europeo organizzato dal presidente David Sassoli per elaborare nuove idee per il futuro dell’Europa.

 

PUBBLICITÁ

“Parliamo sempre di crescita del pil – ha detto il fondatore del M5s – ma Kutnez (che in realtà sarebbe il premio Nobel per l’economia Simon Kuznets, ndr), quel bielorusso che ha inventato il pil, perché si è trovato lì scappato negli Stati Uniti… In un attimo Roosevelt gli ha detto: ‘Fammi due conti di cosa è successo con la guerra’ e lui ha messo giù una roba… Ma lui ha detto specificatamente che il pil non determina il benessere di un paese. E noi siamo ancora con gli economisti di oggi che si sono laureati su libri di 50 anni fa, scritti su presupposti di teorie economiche del Novecento, stiamo ancora a parlare di crescita? Una crescita esponenziale non può esistere, lo sa anche un bambino…”.

 

Una visione analoga a quella del fondatore del M5s l’ha espressa più volte Papa Francesco, a cui non a caso Grillo dice di ispirarsi. “Si passa facilmente all’idea di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia. Ciò suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta”, ha scritto nell’enciclica “Laudato si’”. Proprio ieri il Pontefice ha pubblicato la sua terza enciclica sulla fratellanza e la solidarietà dal titolo "Fratelli tutti", in cui ancora una volta critica l’attuale modello economico: “Ci sono regole economiche che sono risultate efficaci per la crescita, ma non altrettanto per lo sviluppo umano integrale. È aumentata la ricchezza, ma senza equità, e così ciò che accade è che ‘nascono nuove povertà’. Quando si dice che il mondo moderno ha ridotto la povertà, lo si fa misurandola con criteri di altre epoche non paragonabili con la realtà attuale”.

 

PUBBLICITÁ

 

PUBBLICITÁ

Anche nell’enciclica precedente e in altri documenti e circostanze Francesco ha attaccato radicalmente il capitalismo odierno: un sistema che non produce quasi nulla di buono, ma “scarti”, “sfruttamento”, “povertà”, “diminuzione dei posti di lavoro”, “esaurimento delle risorse naturali”. Insomma: “Questa economia uccide”. Le parole del populista italiano e del “populista gesuita” – come è stato definito Bergoglio da Loris Zanatta nel suo ultimo libro, edito da Laterza – sono molto simili. “È arrivata l’ora di accettare una certa decrescita”: lo ha scritto il Pontefice in un’enciclica ma avrebbe potuto scriverlo l’Elevato in un post sul suo blog. Durante un suo viaggio apostolico in Paraguay il Papa ha evocato e riproposto come modelli economici a cui ispirarsi le “Reducciones” del XVII secolo, piccole comunità fondate dai gesuiti per evangelizzare gli indios guaranì, fortemente gerarchizzate, con pochissimi scambi con l’esterno e senza proprietà privata.

 

PUBBLICITÁ

"È aumentata la ricchezza, ma senza equità, e così nascono nuove povertà", scrive Francesco nell'ultima enciclica

 

Il modello economico più antitetico alla modernità e al capitalismo. Le “Riduzioni” – queste comunità teocratiche, autarchiche e collettiviste – sono secondo Papa Francesco “una delle più interessanti esperienze di evangelizzazione e di organizzazione sociale della storia. In esse, il Vangelo era l’anima e la vita di comunità dove non c’era fame, non c’era disoccupazione, né analfabetismo né oppressione. Questa esperienza storica ci insegna che una società più umana è possibile anche oggi”. Ricardo Hausmann, direttore del Center for International Development ad Harvard, ha contestato le tesi di Francesco dicendo che la causa della povertà “non è il capitalismo, ma la sua assenza”.

 

L’economista sudamericano cita due esempi, il suo paese e quello del Pontefice, da anni risucchiati in una spirale di decrescita, inflazione e povertà. “Il Venezuela e l’Argentina sono forse casi di capitalismo sfrenato? – ha detto in un’intervista al Foglio –. Sono esempi di paesi nemici del mercato che per questo hanno pagato un prezzo alto e ora mostrano il fallimento di quell’interventismo che Papa Francesco chiede”.

 

La causa della povertà "non è il capitalismo, ma la sua assenza", dice l'economista sudamericano Ricardo Hausmann

 

Naturalmente le riflessioni di Papa Francesco coinvolgono anche una dimensione spirituale, che non abbiamo gli strumenti per affrontare. Invece qualcosa si può dire riguardo le critiche all’attuale modello economico. Posto che il sistema capitalistico sia quello che più e meglio di tutti ha prodotto nel mondo crescita economica e riduzione della povertà, è giusto riflettere sulle critiche radicali al concetto stesso di crescita per come la intendiamo. Se cioè la crescita economica sia solo un fenomeno quantitativo, che porta con sé anche molti mali, oppure se determini maggiore benessere, felicità e sviluppo umano. La risposta ruota attorno al significato delle tre lettere che misurano la crescita economica: pil.

 

 

Che cosa c’è nel pil

Questo vasto dibattito nasce anche da una questione pratica: il pil è la variabile attorno a cui – direttamente o indirettamente – ruota la politica economica dei governi e la sua valutazione da parte degli osservatori esterni. Ma che cos’è, di preciso? Esso esprime il valore di tutti beni e i servizi finali che vengono prodotti all’interno di un paese, sia da soggetti residenti, sia da non residenti. In altri termini, è una misura (imperfetta) dell’output complessivo di tutto il lavoro e il capitale impiegati in un certo perimetro geografico. L’esigenza di misurare il valore economico della produzione nazionale era avvertita da studiosi e governi da secoli, ma è solo negli anni Trenta del Novecento che si arriva a una definizione formale, e all’elaborazione di metodologie condivise per la raccolta e l’interpretazione dei dati.

 

Come sempre, sono i problemi a stimolare la ricerca di una soluzione. La questione, nell’America degli anni Trenta, era ovviamente la Grande Depressione. Fino ad allora, gli architetti della politica economica si affidavano a indicatori parziali e frammentari, quali i corsi borsistici, l’andamento dei noli o dei traffici portuali e, al limite, qualche indice settoriale. Per trovare una via d’uscita, divenne pressante l’esigenza di misurare l’attività economica dal punto di vista quantitativo. Fu così che il Congresso commissionò un rapporto a un giovane e promettente economista del National Bureau of Economic Research, Simon Kuznets (quello che Grillo chiama “Kutnez”), il quale – assieme al suo staff – selezionò un primo set di indicatori.

 

Il rapporto “National Income, 1929-35”, presentato nel 1937, rappresentò letteralmente un punto di svolta: fu di fatto la pietra angolare su cui venne costruito l’intero sistema dei conti nazionali degli Stati Uniti e, successivamente, del resto del mondo. E tutto ciò avvenne in un periodo di straordinaria attività e inventiva da parte degli economisti: nel 1936 John Maynard Keynes aveva dato alla stampa la “General Theory”, nel 1942 Wassily Leontief pubblicò le sue tavole input-output con cui stilizzava le complesse interazioni sottostanti l’economia americana, nel 1944 Friedrich von Hayek metteva in guardia contro il rischio che i pianificatori e i loro consiglieri, convinti di poter prendere le redini dell’economia, finissero per asfaltare la via della schiavitù.

 

Dal punto di vista pratico, il pil può essere stimato come somma del valore aggiunto generato dalle diverse unità produttive, sulla base dei valori osservati attraverso gli scambi a prezzi di mercato. È importante ricordare sempre che esso rispecchia, appunto, il valore della produzione. Tuttavia – in forza di un’equivalenza contabile – esso viene più spesso definito attraverso gli impieghi. Infatti, qualunque testo di macroeconomia ricorderà che corrisponde alla somma tra i consumi privati, la spesa pubblica, gli investimenti e il saldo commerciale netto (cioè la differenza tra esportazioni e importazioni). Questa formulazione spesso genera fraintendimenti.

 

Per esempio, tende ad alimentare l’idea che ciascuna delle componenti del pil sia indipendente dalle altre: da qui, per esempio, l’idea che un incremento della spesa pubblica porti sempre e comunque a una crescita del pil. Ma la spesa pubblica non spunta sugli alberi: si finanzia attraverso risorse sottratte ad altri utilizzi (le tasse) o al futuro (il debito) e, quindi, può determinare una riduzione – per esempio – dei consumi o degli investimenti privati. Se il risultato netto sia positivo o negativo è questione empirica, legata ai famigerati “moltiplicatori”, che esula dagli scopi di questo articolo.

 

Il rapporto "National Income, 1929-35", presentato nel 1937 e frutto del lavoro dell'economista Simon Kuznets, rappresentò un punto di svolta: fu di fatto la pietra angolare su cui venne costruito l'intero sistema dei conti nazionali degli Stati Uniti e, successivamente, del resto del mondo

 

Un altro comune fraintendimento è legato alle importazioni: la ragione per cui l’import compare con segno negativo nell’identità contabile del pil è che bisogna evitare di contare due volte il valore di prodotti che già compaiono all’interno delle altre voci (consumi, investimenti o spesa pubblica). È la stessa ragione per cui il valore del prodotto nazionale è calcolato al netto dei beni intermedi: questi ultimi, infatti, sono incorporati nei prezzi dei beni finali. Tutto questo rischia di portarci lontano dal filo logico di questo articolo, ma serve per evidenziare tre punti cruciali.

 

Primo: la misura del pil risponde a una serie di esigenze pratiche. “Conoscere per deliberare”, forse la più conosciuta tra le “prediche inutili” di Luigi Einaudi, risale al 1955: ecco, nei ventenni precedenti c’era stato un grande sforzo di conoscere l’attività economica, per comprenderne le determinanti e poter quindi deliberare le forme dell’intervento pubblico al fine di raggiungere gli obiettivi desiderati. C’era stato anche un intenso dibattito su quali fini fossero desiderabili, e i limiti e i rischi dell’espansione del potere dello stato. E, parallelamente, ci si confrontava anche su quale fosse la reale portata informativa del pil. Lo stesso Kuznets, che avrebbe successivamente ricevuto il premio Nobel per i suoi studi sulla crescita, aveva avvertito che sarebbe stato ingenuo prendere il valore della produzione materiale per una misura di benessere. Aveva ragione, ma aveva anche torto.

 

I limiti del pil

I dubbi di Kuznets erano fondati. Come ogni altra statistica macroeconomica, la misura del pil rappresenta una stima imperfetta del volume dell’attività economica. Dagli anni Trenta a oggi sono cambiate molte cose, abbiamo dati più precisi e granulari, siamo meglio in grado di monitorare tutto ciò che viene prodotto nel paese, inclusa – con ovvi margini di incertezza – quella che viene chiamata “economia non osservata”, cioè le transazioni illegali (droga, prostituzione e altre attività illegali) e sommerse. I migliori economisti sono stati ingaggiati per arrivare a stime sempre più precise. Tuttavia, se abbiamo risolto molti problemi e migliorato l’accuratezza delle stime, restano zone grigie delle quali sappiamo poco, e che rendono il pil uno strumento altamente imperfetto.

 

 

Alcuni anni fa Alberto Alesina e Andrea Ichino hanno tentato di attribuire un valore ai lavori domestici. Infatti, nel nostro paese tali incombenze vengono generalmente svolte all’interno della famiglia (specie dalle donne, che spendono in casa circa 40 ore alla settimana contro le 20 degli uomini). Altrove, là dove il tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro è più alto, sono affidati a imprese di pulizie. Questo implica che, a parità di output (le case degli italiani sono pulite e curate come quelle degli svedesi), in un caso il valore del tempo speso nell’housework non è monetizzato e quindi non entra nel computo del pil. Nell’altro, ai lavori domestici corrispondono transazioni economiche, e questo valore è esplicitato.

 

Il contributo dei lavori domestici al pil, comunque, è destinato gradualmente a emergere, man mano che aumenta l’apporto delle donne al mercato del lavoro e fette crescenti di lavoro sono svolte dalle macchine (lavatrici, asciugatrici, lavastoviglie, robot per le pulizie, ecc.). Proprio il progresso tecnologico crea nuove sfide nella misura del pil. Martin Feldstein, l’economista scomparso poco più di un anno fa, ha argomentato persuasivamente che il pil “ufficiale” rappresenta una sottostima di quello reale, in quanto non cattura appieno il valore di tutti i servizi di cui beneficiamo, spesso addirittura gratis come molti servizi digitali.

 

Per fare un esempio banale, fino a qualche anno fa la spesa delle famiglie italiane per l’acquisto di enciclopedie era notevolmente più elevata, mentre oggi sono liberamente consultabili online. I tomi della Treccani entravano nel pil, Wikipedia no. Ma nel complesso l’accesso alla conoscenza è aumentato. Questo è conseguenza del fatto che il pil è stato concepito in una fase della storia economica in cui gran parte del valore aggiunto stava nei beni (prodotti manifatturieri, agricoli, ecc.) mentre ormai larga parte del nostro benessere deriva dalla fruizione di servizi immateriali.

 

Il pil ufficiale rappresenta una sottostima di quello reale, in quanto non cattura appieno il valore di tutti i servizi di cui beneficiamo, spesso addirittura gratis come molti servizi digitali. Fino a qualche anno fa la spesa per l'acquisto di enciclopedie era più elevata, mentre oggi sono consultabili online

 

Ma queste, si potrebbe dire, sono tutte questioni interne al “paradigma del pil”. Si tratta semplicemente di misurare meglio l’attività economica, non di metterne in discussione l’utilità come misura di benessere. Insomma, il caveat di Kuznets non trova risposta nei miglioramenti tecnici. Ciò non significa che il suo avvertimento sia cascato nel vuoto. Da tempo gli studiosi si chiedono se e come migliorare il pil per tenere conto anche di altri fattori che contribuiscono alla qualità della vita. Sul piano del discorso pubblico, la denuncia più nota appartiene a Bob Kennedy: “[il pil] non misura né il nostro spirito né il nostro coraggio – esclamò davanti all’Università del Kansas il 18 marzo 1968 – né la nostra visione né quello che impariamo, né la nostra compassione né la nostra devozione per il nostro paese. In breve misura tutto, tranne ciò per cui vale la pena vivere”. La forza retorica di queste parole non può lasciare indifferenti. E non è mancata, anche sul piano accademico, la sua traduzione.

 

Il pil e tutto ciò per cui vale la pena vivere


A partire dai primi anni Settanta, l’economista Richard Easterlin ha studiato la relazione tra il pil e il benessere soggettivo delle persone, e ha argomentato che “in tutte le società, una maggiore disponibilità di denaro per un individuo rende generalmente quell’individuo più felice. Tuttavia, se aumentano i redditi di tutti, non aumenta la felicità di tutti”. Oltre una certa soglia, i soldi non comprano più la felicità. La divaricazione tra ciò che è vero per l’individuo e ciò che è vero per la società è stato oggetto di numerose indagini empiriche. Quanto è robusta questa relazione? Da cosa dipende? Quali implicazioni ha?

 

Per rispondere, bisogna fare una breve digressione. Le riflessioni sull’inadeguatezza del pil hanno infatti spinto gli studiosi e, talvolta, i governi a sviluppare misure alternative del benessere, che tengono conto non solo della ricchezza economica (misurata attraverso le transazioni di mercato) ma anche di altri fattori, quali la qualità dell’ambiente, il pluralismo e le libertà civili e politiche, il livello di soddisfazione o felicità delle persone desunto da sondaggi di opinione. La ricerca ha dunque imboccato diverse strade, per rispondere ad almeno tre domande: 1) In quale modo può essere modificato il pil per dare pienamente conto del benessere individuale e sociale? 2) Quali sono le determinanti della felicità? 3) Quali relazioni sussistono tra il pil e la felicità?

 

Nessuno ha mai pensato che il valore della produzione aggregata, misurato dal pil, sia l'unica cosa che conta: semmai che, tra le cose che contano, la possibilità di soddisfare i bisogni materiali rappresenti sovente una pre-condizione per raggiungere altri e più alti obiettivi

 

Betsey Stevenson e Justin Wolfers hanno affrontato quest’ultima questione, per mettere alla prova il “paradosso di Easterlin”. Il risultato non è certo sorprendente, almeno per chi voglia dare un po’ di credito alla saggezza popolare (“la salute senza i soldi è una mezza malattia”, si dice a Genova). Ecco: “Abbiamo trovato una chiara relazione positiva tra i livelli medi di benessere soggettivo e il pil pro capite tra i paesi, e non troviamo alcuna evidenza su un punto di sazietà oltre il quale i paesi più ricchi smettono di avere miglioramenti nel benessere soggettivo”. Tali risultati sono robusti sia confrontando paesi diversi, sia all’interno dei singoli paesi. Inoltre, “ciò indica un chiaro ruolo per il reddito assoluto, e uno più limitato per i confronti del reddito relativo, nel determinare la felicità”.


I soldi fanno la felicità, insomma? Non del tutto, ma aiutano un bel po’. Il premio Nobel per l’economia Angus Deaton nel libro “La grande fuga”, che racconta l’evasione dell’umanità dalla sua condizione naturale di povertà, indaga proprio il rapporto tra pil pro capite (denaro) e soddisfazione della vita (felicità) e giunge alla conclusione che c’è una stretta correlazione: “Nei paesi più ricchi la gente è mediamente più soddisfatta per la propria vita di quanto lo siano gli abitanti dei paesi più poveri, e il risultato è analogo anche quando i paesi messi a confronto vantano redditi tra i più elevati del mondo”. Un discorso analogo vale per la salute e l’aspettativa di vita. Benché in questo ambito l’effetto del pil sull’aspettativa di vita sia molto più evidente per i paesi a poveri e ci siano delle eccezioni nel mondo sviluppato (per esempio gli Stati Uniti o la Russia hanno performance peggiori rispetto a paesi con un pil pro capite analogo), a redditi più elevati corrispondono aspettative di vita migliori.

 

La conclusione, secondo Deaton, è che è “un dato di fatto” che “salute e ricchezza sono due tra le componenti del benessere più rilevanti” e “procedono generalmente insieme”. Insomma, essere ricchi è meglio che essere poveri. Sembra una conclusione degna di Massimo Catalano, il filosofo di “Quelli della notte”, ma in realtà è una conclusione molto utile perché vuol dire che il pil fa parte di ciò che è davvero importante per le persone e determina il benessere di un paese. O, almeno, è uno strumento per perseguire, ciascuno e tutti, la ricerca della felicità.

 

Il pil, una misura imperfetta ma realistica. "Nei paesi più ricchi la gente è mediamente più soddisfatta della propria vita di quanto non lo siano gli abitanti dei paesi più poveri"

 

Ma ormai nessuno – a parte Grillo, che comunque ricorda spesso di avere un legame forte con i soldi – mette in discussione il nesso tra il reddito e l’appagamento individuale e collettivo. Non solo: questo risultato rimane robusto sia utilizzando diverse misure del benessere – dai sondaggi di opinione agli indicatori compositi come lo Human Development Index delle Nazioni Unite o il Better Life Index dell’Ocse – sia utilizzando versioni del pil che integrano correzioni per tenere conto di altri valori non pienamente catturati dalle transazioni di mercato (come, in Italia, il “pil equilibrato” dell’Ufficio studi di Confcommercio). Certo, ci sono alcuni ideologi estremisti della decrescita che hanno una visione mistica e palingenetica dell’economia: un esempio è l’ex ministro grillino dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, secondo cui “la fine dell’economia della crescita può diventare l’alba di una nuova società, che persegue il benessere come obiettivo finale del progresso”.

 

   

Ma gli altri detrattori tendono più spesso ad argomentare che il pil non basta, e non che fornisce indicazioni sbagliate. Ciò è perfettamente ragionevole: il prodotto interno lordo non ha l’ambizione di misurare nulla più di quello che dichiara, ossia il valore della produzione aggregata. Nessuno ha mai pensato che questa sia l’unica cosa che conta: semmai che, tra le cose che contano, la possibilità di soddisfare i bisogni materiali rappresenti sovente una pre-condizione per raggiungere altri e più alti obiettivi (ancora la saggezza popolare ci viene in soccorso: “L’amore vince tutto, ma la fame vince l’amore”). C’è magari chi segue un universo di ideali secondo i quali il benessere economico diffuso debba soccombere ad altri valori, ma generalmente accade in regimi poco democratici, dove i sacrifici sono imposti da chi non ne paga il prezzo.

 

Cuba aveva un’economia che si reggeva sulle sovvenzioni e le elargizioni di Mosca e dopo il crollo dell’Unione sovietica piombò nella miseria più nera. Ricorda Loris Zanatta che quando gli veniva chiesto della drastica riduzione del pil pro capite, Fidel Castro rispondeva: “E il pil pro capite morale?”. La ricchezza materiale avrebbe corrotto la coscienza socialista dei cubani: “Di un bene materiale si gode un istante, di uno morale sempre” era il precetto di Castro. L’economia del marxista cubano è per certi versi molto simile a quella delle Riduzioni gesuite paraguayane: gerarchia, autarchia e collettivismo, con il socialismo al posto del Vangelo come “anima della comunità”. L’obiettivo, più che la felicità e il benessere terreno, è la salvezza dell’anima cristiana o della coscienza socialista.

 

Il “pil morale” di Fìdel Castro non può essere di certo ritenuto uno strumento sostitutivo del pil di Kuznets, anche perché avrebbe problemi di misurazione insormontabili: sarebbe impossibile mettersi d’accordo su cosa sia più o meno morale (ovviamente questo per Castro non era un problema, perché tanto a Cuba lo decideva lui per tutti). Ma c’è chi ha provato a introdurre indici alternativi. Un feroce critico del pil come il premio Nobel Joseph Stiglitz ha elaborato metriche diverse che includono anche aspetti immateriali quali il senso di fiducia, la qualità ambientale, la povertà, e così via. La sua tesi è che il pil, se preso come base della politica economica, rischia di produrre effetti perversi: infatti, politiche tese a massimizzare il pil possono andare a detrimento di altri valori, altrettanto importanti. Per questo ha proposto di adottare un indicatore di benessere.

 

 

Gli studi sulla relazione tra il pil e il benessere soggettivo delle persone. Salute e ricchezza, due tra le componenti del benessere più rilevanti. Il "pil pro capite morale" di Fidel Castro. Le correzioni che includono le attività non di mercato, l'impatto dei servizi pubblici e il calo dell'inquinamento

 

Anche altri hanno avanzato ipotesi analoghe, candidando i propri indici. Ma ci sono due problemi. Il primo è che il pil può essere impreciso ma rappresenta una misura oggettiva – nello stesso senso in cui un righello può fornire una misura imprecisa perché l’occhio umano non riesce a distinguere le gradazioni sotto il millimetro, ma comunque misura la lunghezza. Al contrario, gli indicatori alternativi scontano una ineliminabile soggettività: è più importante che una società minimizzi la povertà o la disuguaglianza? Nel valutare la vivibilità di un’area bisogna dare maggior peso all’inquinamento locale o alle emissioni di CO2? L’altro tema è ancora più basilare: poiché tutti questi indicatori sono strettamente correlati al pil, che senso ha complicarsi la vita con misure complesse e arbitrarie quando disponiamo di una consolidata e standardizzata?

 

Le parole del governatore

 
In un recente intervento, il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha parlato proprio delle critiche, anche giuste, a cui da decenni è sottoposto il pil (come si vede, non è affatto un “dogma”) e delle varie metriche proposte in alternativa per misurare il benessere: negli anni Settanta William Nordhaus e James Tobin propongono la “Misura del benessere economico” che corregge il pil includendo le attività non di mercato, l’impatto dei servizi pubblici e il calo dell’inquinamento; negli anni Ottanta Amartya Sen propose un indice – poi divenuto lo Human Development Index – che tenesse conto oltre ai fattori economici dell’accesso all’istruzione, alla salute, ai diritti civili, alla libertà di opinione; c’è chi chiede correzioni al pil includendo disuguaglianza, tecnologia, sostenibilità ambientale.

 

“Nonostante i suoi limiti – è la conclusione di Visco – il pil pro capite sembra avere un legame molto forte con le variabili fondamentali del benessere di un paese. Prendendo in considerazione i dati relativi a circa 200 paesi, riferiti al 2018, vi è in effetti una correlazione molto elevata (superiore al 90 per cento) con l’indice di sviluppo umano”. Il motivo è piuttosto banale: anche le cose importanti – come l’istruzione o la salute – che non entrano direttamente nel pil, ne sono determinate (e contemporaneamente contribuiscono a determinarlo). Forse la crescita economica non risolve tutti i problemi, ma almeno qualcuno lo risolve. La decrescita nessuno: anzi, ne aggiunge altri.

 

 

Oltretutto, nessuno ha mai detto che l’unico fine della politica debba essere la massimizzazione del pil: già oggi i governi perseguono molti obiettivi – giustizia sociale, riduzione della disuguaglianza, sostenibilità, ecc. – che, almeno nel breve termine, non hanno grande nesso col pil o addirittura possono avere un effetto depressivo. Per esempio, il Piano nazionale energia e clima adottato all’inizio di quest’anno dai ministri Stefano Patuanelli, Paola De Micheli e Sergio Costa prevede che l’attuazione delle misure per la decarbonizzazione dell’economia causerà un (modesto) rallentamento nei tassi di crescita del prodotto interno lordo, da qui al 2030.

 

uesto non significa necessariamente che quelle misure siano sbagliate o vadano avversate: è perfettamente legittimo scegliere di essere un poco più poveri per preservare il globo, anziché mettere a repentaglio il nostro futuro per qualche euro in più. Ma è ugualmente importante essere consapevoli di questo aspetto per poter compiere scelte razionali, confrontando così i costi e i benefici attesi delle politiche pubbliche. Al tempo stesso, quella di rinunciare a un po’ di ricchezza futura non è una scelta da compiere a cuor leggero. Ce ne stiamo rendendo conto proprio adesso, che abbiamo scoperto che non sempre la natura è benigna e, quando non lo è, non solo compromette la nostra capacità di creare nuova ricchezza, ma ci costringere ad attingere a quella – fortunatamente – accumulata nel passato. In questi casi, in cui siamo costretti a rinunciare a fette di pil, scopriamo quanto ciò sia doloroso.

 

"A metà del 2020 il pil era tornato al livello registrato all'inizio del 1993", ha osservato il governatore della Banca d'Italia. Questo è dovuto non solo all'impatto drammatico del virus, ma anche al fatto che, negli scorsi decenni, il motore dell'economia italiana si è imballato. Non siamo cresciuti abbastanza

 

Ancora Visco: “Le drastiche misure adottate per contenere la propagazione del virus… hanno colpito profondamente l’economia italiana. A metà del 2020 il pil era tornato al livello registrato all’inizio del 1993. In termini pro capite, è sceso agli stessi valori che si osservavano alla fine degli anni Ottanta”. Questo è dovuto non solo all’impatto drammatico del virus, ma anche al fatto che, negli scorsi decenni, il motore dell’economia italiana si è imballato. Non siamo cresciuti abbastanza. Sicché, “nel secondo trimestre del 2020 altri paesi avanzati hanno subito diminuzioni analoghe o addirittura peggiori del pil (-9,1 per cento negli Stati Uniti, -9,7 in Germania, -13,8 in Francia, -18,5 in Spagna), ma nessuno ha registrato un simile arretramento poiché in questi altri paesi la crescita era stata molto più robusta in passato. Per dare un esempio, il pil è tornato al livello osservato nel 2014 negli Stati Uniti, nel 2010 in Germania, nel 2002 in Francia e in Spagna”. Solo noi siamo tornati indietro di 30 anni (purtroppo senza diventare più giovani).

 

Insomma: proprio l’Italia, tra tutti i paesi, è quello che più e meglio dovrebbe capire l’importanza del pil. E, dunque, si può concludere rovesciando Bob Kennedy e chiamando in causa William Shakespeare. Il pil misura tutto tranne quello che non intende misurare. Ed è un impossibile esercizio di arroganza intellettuale pretendere di rimpiazzarlo con qualche altro indicatore capace di catturare “ciò per cui vale la pena vivere”: ci sono più cose tra cielo e terra di quante ne stiano nei discorsi di Kennedy, nei deliri di Grillo, nei libri di Stiglitz e persino nelle encicliche di Papa Francesco.

 


Luciano Capone è cresciuto in Irpinia, a Savignano. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio dal 2014, si occupa principalmente di economia e politica economica.

Carlo Stagnaro è direttore dell'Osservatorio sull'economia digitale dell'Istituto Bruno Leoni. Con Alberto Saravalle ha scritto "Contro il sovranismo economico" (Rizzoli).

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ