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il lusso in crisi dopo il lockdown

Con la scusa dei dazi di Trump, Lvmh rinuncia a Tiffany. Almeno per ora

Fabiana Giacomotti

Il brand americano ha fatto causa al marchio francese, che forse riaprirà il negoziato per strappare un prezzo d'acquisto più basso 

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Se mai Bernard Arnault fosse in cerca di una soluzione per sfilarsi dall’acquisizione di Tiffany (e la cercava già dallo scoppio della pandemia, perché pagare 16,2 miliardi di dollari per un marchio di fortune alterne nel mondo come quello non ha senso in un periodo di crisi), bisogna riconoscere che Donald Trump gliene ha servita una perfetta. Minacciare nuovi dazi alla Francia era il modo migliore per indispettire l’Eliseo e far sì che il patron di Lvmh comunicasse al mondo, con un tono rassegnato che suonava di vittoria, “l’impossibilità” di chiudere il deal siglato lo scorso autunno a causa della richiesta del ministero degli Esteri del suo paese, allons enfants, di “rinviare l’acquisizione come risposta alla minaccia di tasse sui prodotti francesi”. L’ulteriore richiesta da parte di Tiffany di una seconda proroga dei termini per completare l’accordo, fino al 31 dicembre, è stata la spinta definitiva perché il colosso del lusso si ritirasse, onusto di gloria patriottica, da un’acquisizione che rischiava di costargli molto più cara della pur ragguardevole cifra. Questo perché, nonostante la ripresa in Cina dove gode di un capitale di marchio decisamente superiore a quello su cui può contare in Europa e il recente annuncio della distribuzione di un dividendo pari a 0,58 dollari per azione ordinaria, Tiffany sta naturalmente peggio adesso di quanto stesse lo scorso novembre: possiede 300 negozi in tutto il mondo, ha 14 mila dipendenti e circa 5 mila artigiani specializzati impiegati, ma la base del suo fatturato è più basata sulla piccola ricorrenza in argento, scelta di una clientela di fascia media più soggetta alle fluttuazioni del mercato, rispetto al gioiello importante, almeno per quanto riguarda il mondo occidentale. Temiamo di vedere la questione nella stessa prospettiva del mercato azionistico mondiale che infatti, all’ufficializzazione del ritiro, ha innescato una corsa al ribasso per Tiffany (oltre il 10 per cento lasciato nel parterre, da cui annuncio di una causa che ci terrà sicuramente occupati per mesi), mantenendosi invece neutro su Lvmh.

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Se mai Bernard Arnault fosse in cerca di una soluzione per sfilarsi dall’acquisizione di Tiffany (e la cercava già dallo scoppio della pandemia, perché pagare 16,2 miliardi di dollari per un marchio di fortune alterne nel mondo come quello non ha senso in un periodo di crisi), bisogna riconoscere che Donald Trump gliene ha servita una perfetta. Minacciare nuovi dazi alla Francia era il modo migliore per indispettire l’Eliseo e far sì che il patron di Lvmh comunicasse al mondo, con un tono rassegnato che suonava di vittoria, “l’impossibilità” di chiudere il deal siglato lo scorso autunno a causa della richiesta del ministero degli Esteri del suo paese, allons enfants, di “rinviare l’acquisizione come risposta alla minaccia di tasse sui prodotti francesi”. L’ulteriore richiesta da parte di Tiffany di una seconda proroga dei termini per completare l’accordo, fino al 31 dicembre, è stata la spinta definitiva perché il colosso del lusso si ritirasse, onusto di gloria patriottica, da un’acquisizione che rischiava di costargli molto più cara della pur ragguardevole cifra. Questo perché, nonostante la ripresa in Cina dove gode di un capitale di marchio decisamente superiore a quello su cui può contare in Europa e il recente annuncio della distribuzione di un dividendo pari a 0,58 dollari per azione ordinaria, Tiffany sta naturalmente peggio adesso di quanto stesse lo scorso novembre: possiede 300 negozi in tutto il mondo, ha 14 mila dipendenti e circa 5 mila artigiani specializzati impiegati, ma la base del suo fatturato è più basata sulla piccola ricorrenza in argento, scelta di una clientela di fascia media più soggetta alle fluttuazioni del mercato, rispetto al gioiello importante, almeno per quanto riguarda il mondo occidentale. Temiamo di vedere la questione nella stessa prospettiva del mercato azionistico mondiale che infatti, all’ufficializzazione del ritiro, ha innescato una corsa al ribasso per Tiffany (oltre il 10 per cento lasciato nel parterre, da cui annuncio di una causa che ci terrà sicuramente occupati per mesi), mantenendosi invece neutro su Lvmh.

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And now what? I vertici del brand americano hanno citato Lvmh innanzi al tribunale del Delaware perché rispetti gli obblighi contrattuali, che a loro dire includono “tutti i rischi finanziari relativi a tendenze o condizioni economiche avverse nel settore”, sostenendo inoltre che la richiesta del governo francese “non abbia alcun fondamento”, le loro dilazioni sono dovute alla mancanza delle autorizzazioni antitrust, che la multinazionale francese non avrebbe richiesto. Conoscendo i buoni rapporti di Arnault con Emmanuel Macron, dalla letterina del Quai d’Orsay sentono insomma alzarsi puzza di bruciato e infatti dal ministero hanno fatto sapere che la lettera non è vincolante. Dunque, è Arnault che ha cambiato idea, preoccupato anche che Tiffany non riesca a rimborsare tutte le obbligazioni debitorie dopo il closing, e Tiffany non vuole fargliela passare liscia. Ma è improbabile che trovi un nuovo acquirente adesso, in un anno in cui, secondo Bain & Company, il mercato del lusso mondiale subirà un decremento del 35 per cento. E se lo sforzo di Tiffany di ripagare i suoi azionisti la scorsa primavera è stato molto apprezzato dal mercato, è anche vero che durante il lockdown ha quasi dimezzato le vendite. E il cfo di Lvmh, Jean Jacques Guiony, ha spiegato: “Non possiamo essere troppo contenti di un’azienda che perde la metà del proprio giro d’affari in un semestre”. E’ possibile ipotizzare che Lvmh, a cui non fanno certo difetto i buoni avvocati o la possibilità di rendersi grata a Trump, come dimostrò lo scorso ottobre, un mese prima dell’annuncio dell’accordo con Tiffany, aprendo una fabbrica Louis Vuitton in Texas con l’obiettivo annunciato di impiegarvi mille persone, voglia semplicemente portare Tiffany di nuovo al tavolo dei negoziati, e strappare un prezzo più basso o, per meglio dire, più adeguato al momento.

 

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