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La favola dei 60 miliardi di euro che ogni anno il nord sottrae al sud

Andrea Giovanardi

Ecco i sei errori logici ed economici dietro la teoria di Giannola (Svimez) ripetuta anche dal ministro Francesco Boccia nel corso di un'audizione parlamentare

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In un’intervista di qualche giorno fa resa al Messaggero il presidente della Svimez (Associazione per lo Sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) Adriano Giannola ha sostenuto che il Mezzogiorno merita di essere “risarcito” perché, come affermato anche dal ministro per gli Affari regionali e le autonomie Francesco Boccia nel corso di un’audizione parlamentare, negli ultimi dieci anni gli sono state sottratte, lo testimonierebbe il sistema dei conti pubblici territoriali, risorse per l’enorme cifra di 60 miliardi di euro l’anno circa.

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In un’intervista di qualche giorno fa resa al Messaggero il presidente della Svimez (Associazione per lo Sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) Adriano Giannola ha sostenuto che il Mezzogiorno merita di essere “risarcito” perché, come affermato anche dal ministro per gli Affari regionali e le autonomie Francesco Boccia nel corso di un’audizione parlamentare, negli ultimi dieci anni gli sono state sottratte, lo testimonierebbe il sistema dei conti pubblici territoriali, risorse per l’enorme cifra di 60 miliardi di euro l’anno circa.

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La questione va affrontata perché il dato è eclatante: come può il sud tenere il passo degli altri territori, si potrebbe essere indotti a ritenere, se ogni anno la spesa pubblica riferibile a quel territorio è inferiore rispetto a quella del centronord di un importo così elevato? Su quest’ultimo aspetto, tanto perché ci si possa fare un’idea più precisa delle dimensioni di quello che mancherebbe alle regioni meridionali, basterà rilevare che il gettito complessivo dell’imposta sui redditi delle società (Ires) è pari, sempre nel 2018, a 32,5 miliardi di euro circa.

 

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Come si arriva ai 60 miliardi? Se si prendono a riferimento i dati della spesa statale regionalizzata al netto degli interessi sui titoli di stato (fonte Mef), le tre regioni del nord più sviluppate economicamente – Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna – si situano agli ultimi tre posti (sono quelle in cui si spende meno). Se tuttavia si tiene conto della spesa pubblica in generale, sommando cioè quella degli altri enti territoriali, dell’Inps e di altri enti pubblici come Anas, Ferrovie dello stato eccetera (il cosiddetto “settore pubblico allargato”) e se si rapporta la spesa pubblica così calcolata al numero degli abitanti, il risultato è diverso: nelle regioni del sud si spende meno che nelle regioni del centronord, per 60 miliardi circa secondo il presidente della Svimez.

 

I sei errori

L’utilizzo del dato è però sbagliato e fuorviante per le seguenti ragioni.

La prima. Al cittadino non esperto della materia che legga le roboanti affermazioni sul “furto” perpetrato ai danni del sud finirà per sfuggire un dato fondamentale, e cioè a dire che il centro-nord “ladrone” trasferisce ogni anno imponenti risorse al Meridione. Prendiamo a riferimento i conti pubblici territoriali, perché li ha citati il presidente Giannola: confrontando le entrate del Mezzogiorno con le spese ivi erogate risulta che sono stati trasferiti al sud negli ultimi 10 anni 428 miliardi di euro (50 miliardi di euro l’anno secondo la stessa Svimez nel “Rapporto 2018. L’economia e la società del Mezzogiorno”, che quindi conferma il dato). A tanto ammontano i deficit delle regioni del sud, che possono essere sostenuti grazie alle risorse prelevate nel resto del paese. La conseguenza è presto detta: secondo Giannola (e Boccia) occorrerebbe trasferire altri 60 miliardi (non in unica soluzione, bontà loro), il che è come dire che le imprese del centronord (e solo queste) dovrebbero vedere triplicata la propria aliquota Ires, attualmente al 24 per cento, per garantire quello che spetterebbe al sud. Una situazione chiaramente insostenibile che porterebbe l’intero paese al default.

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La seconda. Il calcolo muove dal presupposto secondo il quale la spesa pubblica dovrebbe essere uguale in valore assoluto su tutto il territorio nazionale, e ciò malgrado il paese si articoli in aree talmente diverse per caratteristiche ed esigenze da richiedere necessariamente diversi livelli di spesa. Chi li pretende uguali dice una grande sciocchezza, che non è di certo smentita dall’affermazione di Giannola secondo cui è la legge che prevede che il 34 per cento delle risorse debba andare al Mezzogiorno: l’art. 7-bis del d.l. 29 dicembre 2016, n. 243 limita il criterio, da contemperarsi comunque con altri, della proporzionalità alla popolazione esclusivamente a un certo tipo di spesa, quella che dovrebbe essere finalizzata all’attenuazione del gap infrastrutturale. Investimenti, quindi. Siamo ben lontani (ci mancherebbe altro!) da ipotesi di equiparazione millimetrica di ogni tipo di erogazione su base capitaria.

 

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La terza. E’ sbagliato considerare nel calcolo la spesa previdenziale, a cui si deve una significativa parte della differenza, dato che è ovvio che le pensioni vengano erogate laddove sono stati pagati maggiori contributi e, quindi, nelle regioni settentrionali. La spesa uguale pro capite non tiene in conto alcuno questa fondamentale circostanza. Allo stesso modo, la scelta di prendere a riferimento nel calcolo il settore pubblico allargato è distorsiva, perché anche le imprese a partecipazione pubblica seguono logiche di mercato e quindi vendono servizi dietro pagamento di un corrispettivo che resta a carico di coloro che ne usufruiscono (che, quindi, quella spesa se la pagano), con la conseguenza che è naturale che investano di più nelle zone economicamente più avanzate laddove la domanda è superiore.

 

La quinta. Si prescinde totalmente dal diverso livello di prezzi tra il Mezzogiorno e le altre aree del paese, differenza che si attesta intorno al 20-30 per cento: è palesemente erroneo quindi confrontare i livelli assoluti della spesa pro capite, atteso che il potere di acquisto è superiore al sud rispetto al centro-nord.

 

La sesta. Non si considera che la medesima quantità di spesa pubblica non garantisce in automatico servizi di analoga quantità e qualità, circostanza questa che risulta ampiamente dimostrata nella situazione italiana, in cui il divario continua ad ampliarsi in un contesto in cui incredibilmente si ritiene che i sistemi economici territoriali crescano in quanto foraggiati dalla spesa pubblica.

 

Siamo di fronte quindi a una favola tanto demagogica quanto pericolosa. Il dibattito sull’attuale assetto dei rapporti finanziari interregionali, che mette in difficoltà soprattutto il nord, sottoposto a una formidabile stretta fiscale, e non favorisce il sud, che non smette di arretrare, dovrebbe essere centrale nel paese: si evitino quindi affermazioni non solo sbagliate, ma anche divisive, bellicose e fatalmente generatrici di sconcerto e rabbia, quei sentimenti su cui si basa ogni fenomeno disgregativo delle comunità nazionali. Le imprese del centro-nord dovrebbero vedere triplicata la propria aliquota Ires per garantire ciò che spetterebbe al sud. Siamo di fronte a una vicenda tanto demagogica quanto pericolosa, che non solo porterebbe il paese al default ma che alimenta quei sentimenti che portano alla disgregazione delle comunità nazionali.

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