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Aridateci l’inflazione

Stefano Cingolani

Storia universale di un male che potrebbe essere salvifico nella crisi post pandemia. Pregiudizi e strategie

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Più inflazione, più salari, più lavoro, meno austerità. La svolta è grande, come quella del 1979, anche se va in senso inverso. Allora un presidente della Federal Reserve democratico, il gigantesco Paul Volcker, strinse la corda per stroncare la sfrenata corsa dei prezzi. La scorsa settimana un presidente repubblicano, Jerome Powell, aprendo l’annuale incontro dei banchieri centrali a Jackson Hole nel Wyoming, ha cambiato spalla al fucile monetario: prima di tutto bisogna far crescere i prezzi e l’occupazione. Il tetto del 2 per cento l’anno, fissato nel 2012, è troppo basso, quanto meno occorre che venga considerato una media lasciando che l’inflazione salga e scenda. I timori sull’eccesso di moneta sono esagerati; al contrario, la Banca centrale continuerà a stampare dollari e a mantenere il costo del denaro di poco sopra lo zero (la Bce è andata anche sotto), una scelta non solo di breve periodo per far fronte all’attuale recessione, ma a lungo termine per evitare una penosa stagnazione. Aveva ragione Olivier Blanchard, peccato che lo abbiano riconosciuto con dieci anni di ritardo e con il fiato di Donald Trump sul collo. L’economista francese, che non ha più abbandonato l’America, ha studiato con Stanley Fischer al Massachusetts Institute of Technology come Mario Draghi, ha insegnato a Harvard e pubblicato il manuale di Macroeconomia sul quale si sono rotti la testa migliaia di studenti. Nel 2010, quando era al Fondo monetario internazionale, scrisse che bisognava allentare “lacci e lacciuoli” lasciando spazio all’inflazione. Il suo studio aveva un titolo ambizioso (“Ripensare la politica macroeconomica”) e indicava nel 4 per cento il nuovo obiettivo minimo. Allora si aprì un dibattito accademico, le Banche centrali misero al lavoro i loro uffici studi, ma non cambiarono gli obiettivi prestabiliti.

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Più inflazione, più salari, più lavoro, meno austerità. La svolta è grande, come quella del 1979, anche se va in senso inverso. Allora un presidente della Federal Reserve democratico, il gigantesco Paul Volcker, strinse la corda per stroncare la sfrenata corsa dei prezzi. La scorsa settimana un presidente repubblicano, Jerome Powell, aprendo l’annuale incontro dei banchieri centrali a Jackson Hole nel Wyoming, ha cambiato spalla al fucile monetario: prima di tutto bisogna far crescere i prezzi e l’occupazione. Il tetto del 2 per cento l’anno, fissato nel 2012, è troppo basso, quanto meno occorre che venga considerato una media lasciando che l’inflazione salga e scenda. I timori sull’eccesso di moneta sono esagerati; al contrario, la Banca centrale continuerà a stampare dollari e a mantenere il costo del denaro di poco sopra lo zero (la Bce è andata anche sotto), una scelta non solo di breve periodo per far fronte all’attuale recessione, ma a lungo termine per evitare una penosa stagnazione. Aveva ragione Olivier Blanchard, peccato che lo abbiano riconosciuto con dieci anni di ritardo e con il fiato di Donald Trump sul collo. L’economista francese, che non ha più abbandonato l’America, ha studiato con Stanley Fischer al Massachusetts Institute of Technology come Mario Draghi, ha insegnato a Harvard e pubblicato il manuale di Macroeconomia sul quale si sono rotti la testa migliaia di studenti. Nel 2010, quando era al Fondo monetario internazionale, scrisse che bisognava allentare “lacci e lacciuoli” lasciando spazio all’inflazione. Il suo studio aveva un titolo ambizioso (“Ripensare la politica macroeconomica”) e indicava nel 4 per cento il nuovo obiettivo minimo. Allora si aprì un dibattito accademico, le Banche centrali misero al lavoro i loro uffici studi, ma non cambiarono gli obiettivi prestabiliti.

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Aveva ragione Olivier Blanchard, peccato che lo abbiano riconosciuto con dieci anni di ritardo e con il fiato di Trump sul collo. La disoccupazione degli anni Trenta alimentò l’ascesa di Hitler, ma anche la colossale svalutazione del marco negli anni Venti

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Se gli avessero dato retta la recessione provocata dalla pandemia sarebbe meno pesante? Forse no, tuttavia sarebbe stata meno grave la crisi dei debiti sovrani, il Quantitative easing sarebbe arrivato prima anche in Europa, Draghi non avrebbe dovuto pronunciare il suo “whatever it takes” nel luglio 2012, la ripresa americana si sarebbe diffusa al di qua dell’Atlantico con maggior rapidità, la bonanza finanziaria non sarebbe rimasta a Wall Street. Insomma, i fondamentali dei paesi occidentali sarebbero migliori. La pandemia avrebbe comunque colpito l’offerta, però la domanda avrebbe resistito più a lungo. Si dice che la storia non si fa con se, anche questo è tutto da vedere, in ogni caso il precetto non vale per la politica.

  

La Fed ha riflettuto a lungo prima di annunciare la svolta, è un anno che economisti e banchieri studiano la relazione tra prezzi e costo del denaro, trovandola sempre meno chiara ed evidente. Richard Clarida, il vice di Powell, ha spiegato lunedì scorso che “vista la scarsa risposta dell’inflazione ai bassi livelli di disoccupazione, la Banca centrale deve diventare scettica sui modelli che predicono un rialzo dell’inflazione quando vengono modificati i tassi d’interesse”. Il banchiere ha mostrato anche una nota di umiltà, scrive il Wall Street Journal, riconoscendo che “una stretta di politica monetaria basata soltanto su un modello, senza nessun’altra evidenza che mostri una eccessiva pressione sui costi, è difficile da giustificare”. Meno formule astratte, più nasometria. Intuizione e pragmatismo, quella del banchiere centrale è un’arte, come scrisse nel 1932 l’economista Richard Hawtrey in piena Grande depressione. Vedremo il 15 settembre, quando si riunirà il consiglio, quale quadro uscirà dal pennello di Powel. Intanto dalla Fed si leva anche una richiesta al governo federale per nuovi stimoli, mentre il Congresso si agita perché il debito pubblico supera ormai il 100 per cento del pil. Non è chiaro come reagirà Christine Lagarde. Il mandato della Bce è vincolato alla stabilità dei prezzi, ma a questo punto è superato e la Bce dovrebbe abbattere il tabù del 2 per cento. Viva la realtà, anche a Francoforte.

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L’impatto sulla distribuzione della ricchezza, a sfavore dei redditi fissi che non aumentano allo stesso ritmo. Il caso italiano del 1975. L’integrazione di tecnologie avanzate nei processi produttivi, la crescita del digitale. Cala il prezzo delle merci e pure le retribuzioni

L’inflazione resta uno spauracchio eppure dall’inizio del nuovo millennio è pressoché scomparsa nel mondo intero: ha avuto un rimbalzo vicino al 4 per cento tra 2007 e 2008, è crollata a zero con la crisi finanziaria del 2009 e ancora nel 2015, per poi risalire restando sempre sotto i due punti percentuali. Si tratta di una media che sconta una dinamica dei prezzi superiore nei paesi emergenti rispetto a quelli più sviluppati, dove l’inflazione zero contribuisce alla bassa crescita economica degli ultimi vent’anni e ha indotto Larry Summers a parlare di una stagnazione secolare. Fatti e cifre sono evidenti, eppure scatta sempre un riflesso pavloviano innescato da una paura ancestrale. Non che l’inflazione in passato non abbia infranto i livelli di guardia provocando sfracelli, l’ossessione di Weimar che segna ancor oggi il paradigma monetario e fiscale tedesco non è del tutto infondata. E’ vero che fu l’alta disoccupazione degli anni Trenta ad alimentare l’irresistibile ascesa di Adolf Hitler, tuttavia la colossale svalutazione del marco negli anni Venti aveva già minato l’economia e la società della Germania. La storia, dunque, pesa sulle nostre spalle, anche se propria la storia ci dice quanto le cose siano oggi diverse.

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Le Banche centrali sono davvero in grado di gonfiare i prezzi? Le più grandi, la Fed e la Bce, non ci sono riuscite. Ancor meno la Banca del Giappone, la prima ad addentrarsi nella selva oscura del denaro a costo zero. Era stato Paul Krugman a sostenere che per condurre l’economia giapponese fuori dalla persistente stagnazione fosse necessario un aumento del tasso di inflazione. Anche allora la proposta suscitò un dibattito acceso, ma nei fatti l’inflazione giapponese, nonostante la politica espansiva della banca centrale, non è mai aumentata in misura sufficiente. Le dimissioni di Shinzo Abe diventano la fisica testimonianza che la sua “rivoluzione” è fallita, scrive Robin Harding sul Financial Times. Creando debito pubblico e pompando liquidità l’Abenomics non ha fatto crescere né i prezzi né il prodotto lordo, anzi ha mostrato i limiti dello stato e l’illusione che sia il governo, manovrando fisco e moneta, non solo a incentivare, ma a creare sviluppo. E’ un monito anche per i giapponesi della Lega come Claudio Borghi.

  

Se è così, non serve più la curva di Phillips, il legame inverso tra inflazione e disoccupazione non può restare il punto di riferimento per la politica economica, ma va rivista anche l’equazione moneta-prezzi. Due pilastri vacillano, se non proprio crollano, sotto i colpi della grande trasformazione che cambia il volto del capitalismo. Nella impostazione keynesiana tradizionale, al governo sarebbe stato suggerito di percorrere di nascosto il trade-off tra prezzi e posti di lavorio, nel presupposto che un maggiore saggio di crescita si potesse ottenere sorprendendo gli attori dello scambio. Negli schemi teorici di oggi, che incorporano le aspettative razionali, proprio l’impossibilità di cogliere di sorpresa il mercato, diventa il canale attraverso cui sospingere un’accelerazione della crescita. Di qui la proposta di un aumento “condiviso” che potrebbe funzionare se l’inflazione fosse determinata fondamentalmente dalla liquidità immessa dalle banche centrali nel sistema economico, ma così non è e lo stiamo verificando anche in questi mesi.

  

Non funziona nemmeno, almeno per il momento, la svalutazione del dollaro indotta dalla politica monetaria espansiva. Mette nei guai la Bce, che non ha più spazio per ridurre i tassi di interesse, mentre l’euro forte colpisce le esportazioni e rallenta la ripresa. L’abbondanza di moneta finora ha provocato un apprezzamento solo della Borsa. Secondo l’Economist ciò ha allargato il fossato tra Wall Street e Main Street, tra la finanza e l’economia reale. Anche questa lettura dei fatti, però, è parziale. Il boom di Borsa è sostenuto da Apple, Tesla, i giganti del web, la telefonia, l’intrattenimento e la guerra tra Netflix e Disney, la farmaceutica e la corsa al vaccino, e così via. Non è forse economia reale? E’ l’economia del nuovo secolo, in parte immateriale, ma più che mai vera. Dunque dobbiamo guardare innanzitutto ai mutamenti strutturali. La globalizzazione è il grande gioco che ha cambiato le regole. Fino a che punto e quanto a lungo?

  

Uno studio della Fed pubblicato nel 2017 scrive che “l’espansione delle catene globali del valore fa aumentare la concorrenza diretta e indiretta tra le economie, rendendo l’inflazione domestica più sensibile all’output gap globale. Il che può incidere sulle scelte che le banche centrali devono affrontare nel gestire l’inflazione”. La curva di Phillips è stata creata quando le economie erano concentrate soprattutto sul mercato interno e i bassi livelli di disoccupazione generavano un naturale aumento delle retribuzioni e dell’inflazione. Tuttavia, con la crescente importanza della globalizzazione, i salari si mantengono bassi per effetto della concorrenza del mercato del lavoro internazionale. Le aziende hanno trasferito la produzione dove la manodopera è più conveniente. Nel frattempo, le importazioni a basso prezzo, favorite dall’abbattimento delle tariffe doganali in paesi come la Cina, hanno invaso i mercati sviluppati. Queste economie di scala abbassano i prezzi e l’inflazione rimane quindi inferiore ai valori che avrebbe assunto in caso di produzione domestica. Ci sono anche altre forze all’opera e hanno a che fare con l’innovazione tecnologica e la rivoluzione digitale. Si pensi all’ecommerce che elimina gli intermediari e aumenta la possibilità di scelta spingendo la concorrenza a ridurre i prezzi. E siamo solo all’inizio perché l’ecommerce è ancora una frazione piccola della spesa al dettaglio. Lo stesso può dirsi dell’impatto della share economy sul prezzo di molti servizi. Più in generale, stiamo assistendo alla rapida integrazione di tecnologie avanzate nei processi produttivi, alla crescita del digitale e alla nascita di soluzioni innovative. Ciò migliora l’efficienza e la produttività. Anche se il calo dei prezzi delle merci è davvero significativo soltanto in alcuni comparti, l’impatto negativo sulle retribuzioni risulta più esteso, per effetto della sostituzione della forza lavoro tradizionale. Aggiungiamo poi che un numero sempre maggiore di persone lavora part time o in job sharing, con contratti a tempo determinato. Il calcolo del tasso di disoccupazione esclude chi ha scelto di non lavorare e include gli occupati a orario minimo; in questo modo, livelli molto bassi di disoccupazione non si traducono automaticamente in una crescita delle retribuzioni.

  

Secondo la Banca d’Inghilterra, il problema salariale nelle economie avanzate si può in parte risolvere ammettendo che le riforme strutturali post-crisi hanno abbassato i tassi naturali di disoccupazione, ampliando le misure di inattività lavorativa per includere la sottoccupazione volontaria, e riconoscendo che i salari deboli sono una conseguenza della scarsa crescita della produttività per periodi prolungati. Aumentiamo le paghe, dice Blanchard, questa è la via maestra per riportare l’inflazione su livelli adeguati a oliare la macchina produttiva. Fino a che punto? Basterà il 4 per cento? Con i prezzi salgono anche i profitti e si riduce l’ammontare monetario dei debiti, ma se il meccanismo sfugge di mano? Non solo: l’inflazione ha un impatto molto forte sulla distribuzione della ricchezza, a sfavore dei redditi fissi che non aumentano allo stesso ritmo. Operai e impiegati sono svantaggiati rispetto a imprenditori e commercianti che sono in grado di influire sui prezzi finali. Dunque, c’è il rischio che si ripresenti un copione che l’Italia ha già recitato.

  

Correva l’anno 1975 e al vertice della Confindustria c’era niente meno che il principe regnante del capitalismo italiano, Gianni Agnelli detto l’avvocato. Il più grande sindacato, la Cgil “social-comunista”, era guidata dal carismatico Luciano Lama. L’Italia era in crisi profonda, colpita dal rincaro del petrolio, dalle lotte sindacali, dal terrorismo rosso e nero, dall’indebolimento del partito egemone, la Democrazia cristiana a favore del Partito comunista. L’inflazione correva, anzi galoppava addirittura a doppia cifra, e all’instabilità politica s’aggiungeva quella economica e sociale. In questo scenario è maturato l’accordo sul punto unico di scala mobile che portava con sé un indubbio connotato politico: quello che venne chiamato patto dei produttori e faceva da pendant oggettivo al compromesso storico tra Pci e Dc. Sembrava la panacea, fu un disastro. Franco Modigliani e Tommaso Padoa Schioppa in un loro studio dimostrarono due effetti perversi: quel meccanismo schiacciava i salari verso il basso penalizzando i lavoratori più qualificati, e faceva rimbalzare i prezzi moltiplicando l’inflazione. Dal punto di vista sindacale, poi, toglieva qualsiasi spazio alla contrattazione. Bisognerà ricorrere a un referendum, dieci anni dopo, per uscire dal circolo vizioso.

  

La questione salariale è tornata decisiva per la ripresa post pandemia. La Confindustria intende rinnovare i contratti scaduti senza aumenti salariali. “E’ una restaurazione”, protesta Maurizio Landini. Il segretario della Cgil denuncia che le retribuzioni sono troppo basse, tuttavia rifiuta che vadano aumentati su base aziendale e territoriale in rapporto alla produttività. Eppure è proprio l’insufficiente produttività, del lavoro non solo del sistema, il nodo mai sciolto della stagnazione italiana. Landini dovrebbe ammettere anche che le retribuzioni sono troppo piatte e in questo modo vengono penalizzati i lavoratori più qualificati, mentre si consente una redistribuzione ineguale dei redditi a favore degli operai del sud e delle aree periferiche rispetto a quelli del nord e delle aree metropolitane, come spiega uno studio di Tito Boeri, Enrico Moretti e Andrea Ichino. La legge bronzea che vuole salari uguali per tutti è ingiusta e inefficace allo stesso tempo. Ma ancora una volta il pregiudizio vince sul giudizio.

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