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Il manifesto di Bettini mostra le alternative del Pd nel rapporto con le imprese

Carlo Stagnaro

Farla finita con la criminalizzazione dei piccoli e grandi patrimoni oppure tornare ad aggredire le rendite? E’ ora che il Pd scelga da che parte stare

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Il manifesto di Goffredo Bettini, pubblicato la settimana scorsa sul Foglio, ha avuto il merito di obbligare il Partito democratico (e non solo) a riflettere sulla sua collocazione e i suoi obiettivi politici di lungo termine. Sotto la superficie, però, c’è una visione economica che merita di essere esplicitata.

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Il manifesto di Goffredo Bettini, pubblicato la settimana scorsa sul Foglio, ha avuto il merito di obbligare il Partito democratico (e non solo) a riflettere sulla sua collocazione e i suoi obiettivi politici di lungo termine. Sotto la superficie, però, c’è una visione economica che merita di essere esplicitata.

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Per Bettini, tutto ruota attorno alla “lotta alla rendita”. Solo che a questo termine viene affibbiato un significato del tutto peculiare. Riprendendo polemicamente l’invito di Giorgio Gori a riallacciare un rapporto con le “forze produttive”, Bettini scrive: “Il capitalismo italiano è stato in gran parte assistito. Si è intrecciato con la speculazione finanziaria. Si è delocalizzato, internazionalizzato. E’ sfuggito dalle sue responsabilità nazionali”. In queste parole non c’è solo un eccesso di generalizzazione. C’è anche, e soprattutto, la confusione tra strategie imprenditoriali diverse quando non opposte – l’internazionalizzazione e la delocalizzazione – e un giudizio morale implicito. Le imprese non delocalizzano per cattiveria, ma perché non vi sono più le condizioni per produrre un certo bene. Il profitto non è il frutto del peccato, ma la misura di quanto un’impresa sia in grado di soddisfare i consumatori; la sua assenza è invece la prova che non lo fa. Di fronte al giudizio del mercato – cioè dei consumatori – non ha senso affannarsi a trattenere le produzioni a basso valore aggiunto, bisogna semmai chiedersi come attirare imprese più innovative.

    

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Ecco allora che si arriva al secondo punto cruciale: la rivendicazione della frammentazione industriale. Secondo Bettini “occorre rafforzare la dimensione delle aziende italiane, ma quel tessuto imprenditoriale diffuso è stato comunque prezioso per garantire occupazione, creatività, la tenuta delle esportazioni, la rete delle infrastrutture e dei servizi in tante regioni italiane”. E’ vero il contrario: i pervasivi disincentivi alla crescita dimensionale sono la ragione prima per cui le imprese italiane faticano a investire, innovare e – ohibò – internazionalizzarsi. Occorre ripensare il nostro sistema per favorire la crescita di chi ha successo ma anche il fallimento di chi non lo ha. Invece, questa funzione – che è l’essenza stessa del mercato – Bettini la accetta solo se svolta dallo Stato: il nostro tessuto produttivo “non sarà in grado di coordinarsi e di crescere in grandezza, se non verrà in campo una vera politica industriale integrata dei grandi soggetti imprenditoriali pubblici e privati”. E’ un ritorno bello e buono agli anni Settanta.

       

Coerentemente, alla revanche Stato imprenditore si accompagna – e non può essere altrimenti – la mattanza di quel che resta del privato imprenditore (citofonare Autostrade, Tim, Alitalia). Cosa è, infatti, la rendita, secondo Bettini? “La rendita sono gli enormi patrimoni inermi e improduttivi. Il risparmio privato, impaurito e dunque non circolante”. E’ la prima volta che il risparmio viene assimilato tout court alla rendita, senza peraltro capire – come ha notato Mario Seminerio – “che il risparmio liquido deriva spesso da motivazioni precauzionali, cioè dall’esigenza di fronteggiare elevata incertezza”. Chi vuole che gli italiani investano i loro denari, dovrebbe anzitutto metterli nella condizione di fidarsi del paese: e, dunque, smetterla di criminalizzare i loro piccoli o grandi patrimoni, anche perché ciò suscita il sospetto che il passo verso la patrimoniale sia fin troppo breve.

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E’ su questo che i riformisti del Pd – Gori, Lorenzo Guerini, Tommaso Nannicini, Valeria Fedeli e gli altri che hanno manifestato disagio in queste settimane – dovrebbero esprimersi. Il punto nodale non è che Bettini chieda al Pd di fare ciò che critica nelle imprese, cioè delocalizzare la raccolta dei voti moderati affidandola a Renzi. E’ semmai la sottostante visione dell’economia, dello Stato e del futuro del paese. Bettini non solleva questioni tattiche sulle alleanze (che sono semmai una conseguenza), ma una domanda strategica sull’identità del Pd. Gli elettori dovrebbero conoscere la risposta, possibilmente prima delle elezioni regionali.

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