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Cos’è la Bidenomics

Stefano Cingolani

Investimenti pubblici e tasse. American Dream contro America First. La sfida economica di Biden guarda al centro, decisivo sarà il Midwest

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La conquista della Casa Bianca sarà decisa nel Midwest, ancora una volta. Non a caso il Partito democratico ha scelto per la sua convention Milwaukee, capoluogo del Wisconsin, la città della Harley Davidson, della birra Miller, ma anche dell’automazione, insomma siamo nel pieno dell’America industriale. Quella vastissima area abitata da 70 milioni di persone, che va da Chicago alle pianure del Kansas, dai grandi laghi ai confini con il Canada al fiume Ohio, è strategica non solo a causa del complesso sistema di voto, ma anche perché è lì il cuore pulsante e produttivo degli Stati Uniti. Se la Silicon Valley rappresenta il luogo simbolico della nuova economia, fin dai lontani successi della Hewlett Packard, il Midwest è stato per oltre mezzo secolo il suo contraltare. E’ ancora così? Per capire che cosa ha in mente Joe Biden e se la sua sfida a Donald Trump ha solide fondamenta, bisogna analizzare la piattaforma economica con la quale si presenta agli americani, la cosiddetta Bidenomics. Tuttavia occorre gettare uno sguardo non solo all’elenco delle promesse, ma ai mutamenti avvenuti nella società e nel corpo elettorale, cominciando da quello che è stato lo zoccolo duro del trumpismo.

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La conquista della Casa Bianca sarà decisa nel Midwest, ancora una volta. Non a caso il Partito democratico ha scelto per la sua convention Milwaukee, capoluogo del Wisconsin, la città della Harley Davidson, della birra Miller, ma anche dell’automazione, insomma siamo nel pieno dell’America industriale. Quella vastissima area abitata da 70 milioni di persone, che va da Chicago alle pianure del Kansas, dai grandi laghi ai confini con il Canada al fiume Ohio, è strategica non solo a causa del complesso sistema di voto, ma anche perché è lì il cuore pulsante e produttivo degli Stati Uniti. Se la Silicon Valley rappresenta il luogo simbolico della nuova economia, fin dai lontani successi della Hewlett Packard, il Midwest è stato per oltre mezzo secolo il suo contraltare. E’ ancora così? Per capire che cosa ha in mente Joe Biden e se la sua sfida a Donald Trump ha solide fondamenta, bisogna analizzare la piattaforma economica con la quale si presenta agli americani, la cosiddetta Bidenomics. Tuttavia occorre gettare uno sguardo non solo all’elenco delle promesse, ma ai mutamenti avvenuti nella società e nel corpo elettorale, cominciando da quello che è stato lo zoccolo duro del trumpismo.

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Dalla Rustbelt alla Brainbelt, la cintura dell’intelligenza. Tra Detroit, Chicago e Minneapolis un’area di eccellenze e dinamismo

Una volta c’erano i blue collars, gli operai in tuta. Un tempo votavano come diceva il sindacato o non votavano. Erano stati repubblicani fino alla Grande Depressione degli anni 30 perché il Grand Old Party di Abraham Lincoln era il partito dell’industria contrapposto ai Democrats, espressione dei piantatori del sud, ma anche dei piccoli agricoltori ostili al governo federale, contrari all’invadenza dello stato, sia pure sotto forma di Banca centrale. Poi le cose sono cambiate totalmente grazie a Franklin Delano Roosevelt, ma l’impronta della storia resta ed è stato Trump a capirlo.

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E una volta c’era anche la catena delle vecchie industrie fumose e inquinanti. Ci sono ancora, sia chiaro, e proprio a quell’America affumicata dal carbone e dal petrolio si è rivolto The Donald promettendo protezione, rompendo l’accordo di Parigi sul clima, assicurando il ritorno a un antico primato insulare, prima gli americani, fuori i cinesi, i giapponesi, per non parlare dei tedeschi, voi ricchi comprate i macchinoni mangia-benzina, non le Mercedes o le Bmw, voi classe media fatevi una Ford non una Toyota ibrida. I big di Detroit prima lo hanno ringraziato, poi si sono trovati spiazzati dalla concorrenza che ormai si svolge in territorio americano. Le auto straniere non sbarcano dalle navi, ma escono dalle fabbriche del sud o dal Messico dove Ford, General Motors, Fca hanno da tempo trasferito parte dei loro impianti. Intanto anche il Midwest sta cambiando e più profondamente di quel che si possa immaginare.

  

La logica della Bidenomics: indebitarsi è gratis, gli Stati Uniti sono nel bel mezzo di una crisi nazionale, è l’ora di mobilitarsi

Dalla Rustbelt alla Brainbelt, ha scritto l’Economist con un gioco di parole, letteralmente dalla cintura arrugginita alla cintura dell’intelligenza. Chicago non è una novità, da sempre è un polo di eccellenza, ma ormai il Minnesota, il Wisconsin, l’Iowa e l’Illinois hanno una qualità della educazione superiore a quella di molti stati dell’est. John Austin, del Chicago Council of Global Affairs, in un suo studio ha definito il livello intellettuale del Midwest addirittura “eccezionale”: 15 delle 200 migliori università del mondo sono là e attirano per la ricerca più delle università della California e delle otto Ivy League (Brown, Columbia, Cornell, Dartmouth, Harvard, Princeton, Pennsylvania, Yale) messe insieme. Ben 16 tra le prime scuole di Medicina del paese, cinque delle migliori 25 in informatica, e 17 tra i 63 più importanti centri di ricerca sono ubicati nel cuore del paese. Anche le fabbriche sono cambiate, con l’impiego massiccio dei robot e delle tecnologie digitali, in misura superiore alla media nazionale. Una nuova classe media altamente professionalizzata vive nelle principali aree metropolitane, consuma e lavora. Chicago e il suo territorio hanno un prodotto lordo superiore ai 700 miliardi di dollari, poco meno della metà di quello italiano. La bistrattata e prostrata Detroit arriva oltre i 270 miliardi di dollari, circa metà della produzione dell’intero Michigan. Il panorama non è molto diverso a Minneapolis, nel Minnesota, o a St. Louis, nel Missouri. Non sono certo tutte rose e fiori, come sappiamo. Discriminazione razziale, sicurezza, polizia, problemi irrisolti, così come veri e propri conflitti sociali con le aree rurali e la loro cultura. Anche questi in fondo non sono solo segni del passato, ma effetti collaterali di un dinamismo che a molti osservatori esterni è a lungo sfuggito.

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Secondo i democratici, The Donald, per come è fatto e per come ha impostato la sua piattaforma, difficilmente può cogliere questa trasformazione. E Joe Biden? Riuscirà a inserire un cuneo nel blocco economico-sociale che ha sostenuto Trump? Nel suo programma si rincorrono i tradizionali cavalli di battaglia: i diritti civili, i sostegni alle minoranze, la lotta alla povertà, l’intero arcipelago liberal insomma. Bernie Sanders, suo avversario e mito della sinistra, nient’affatto domato dalla sconfitta, è sceso in campo per sostenere il vicepresidente di Barack Obama: “Non abbiamo più tempo”, ha dichiarato; come dire turiamoci il naso pur di sconfiggere Trump. La scelta come vice di Kamal Harris, senatrice della California di origine indo-giamaicana, è un messaggio chiaro. La prima donna di colore a correre per una tale posizione è un candidato quanto mai qualificato che parla a tutti, non solo ai Black Americans o agli immigrati; insomma, non è soltanto uno schiaffo al Trump che liscia il pelo a razzisti, suprematisti, poliziotti violenti. La sfida simbolica va ben al di là: è il melting pot contro il nazionalismo, è l’American Dream contro l’America First.

  

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La sinistra è delusa, ma spera che in caso di vittoria Biden possa scegliere Elizabeth Warren come segretario al Tesoro

Oltre il simbolo ci sono i contenuti di una politica economica che guarda chiaramente al centro e alla maggioranza bianca la quale, anche grazie al gioco dei collegi, resta decisiva per chiunque voglia arrivare alla Casa Bianca. A parte il Midwest, è così in Florida, in Texas, in California, in Massachusetts o nello stato di New York, tanto per citare gli stati più rilevanti. Anche per questo lo sfidante è stato tutto sommato prudente. Secondo Edward Luce, il commentatore ed editorialista del Financial Times dagli Stati Uniti, “l’ironia è che il piano di Biden contiene molti elementi chiave di quel che Trump aveva promesso nel 2016: modernizzare le infrastrutture de proteggere l’America dimenticata. La logica della Bidenomics è semplice. Indebitarsi è gratis. Gli Stati Uniti sono nel bel mezzo di una crisi nazionale. Le sue infrastrutture non sono più da primo mondo e la disoccupazione è ai livelli più alti di una intera generazione. Sembra il momento giusto per entrare nel XXI secolo con la ‘più ampia mobilitazione di investimenti pubblici’ dalla Seconda guerra mondiale”.

   

Non solo. C’è dietro un calcolo squisitamente politico. Biden guarda ai delusi da Trump e cerca di insinuarsi in campo avverso per conquistare i moderati della destra, quelli che vengono chiamati i Biden Republicans così come un tempo c’erano i Reagan Democrats. L’ambizione è di creare una coalizione ampia della quale il centro-destra, come potremmo chiamarlo noi, diventi il perno e possa anche ridimensionare se non annullare l’impatto di una vittoria repubblicana al Senato. L’invito a unire l’America come se fosse una famiglia, rivolto da Jill Biden agli elettori, ha anche questo significato. Aver lasciato cadere l’imposta patrimoniale che stava a cuore a Bernie Sanders e la proposta di una copertura sanitaria universale, è un altro chiaro segnale. La sinistra è delusa, ma spera che Biden in caso di vittoria possa scegliere Elizabeth Warren come segretario al Tesoro. Con la sponda di Sanders al Senato potrebbe introdurre i temi sociali più cari alla left e rilanciare le riforme di Obama rimaste incagliate: l’energia verde, l’assicurazione malattia obbligatoria, gli asili nido, i permessi ai genitori per accudire i figli, insomma quella griglia di welfare state all’europea che in America non è mai passato e non solo per colpa della destra.

  

Ma su un punto difficilmente i Democrats potranno ampliare i loro consensi: le tasse. Trump le ha ridotte come promesso e questo ha dato senza dubbio una spinta alla economia, adesso la partita è diversa e ha altre regole del gioco. Per stimolare la ripresa dalla più grave recessione in 70 anni, ci vuole una operazione molto coraggiosa che Biden non ha (non ancora) delineato con precisione. Ha parlato di quattromila miliardi in dieci anni da finanziare con le imposte sulle grandi imprese e le famiglie più ricche, tuttavia per raggiungere una somma tanto ingente non basterà aumentare le aliquote più elevate, bisognerà incidere nel grande ventre della nazione, quella classe media che si è sentita “proletarizzata” in questi anni e ha alimentato la protesta anti-establishment. E’ la prima volta in molti decenni che un candidato si presenta proponendo un aumento e non un taglio delle tasse.

   

La vera partita dei contenuti si gioca al Congresso. Se il Senato sarà in mano ai Repubblicani, l’agenda Biden finirà in un vicolo cieco. E’ successo anche a Trump. Oggi il presidente in carica si presenta senza una vera piattaforma che non sia negativa. Il braccio di ferro con Nancy Pelosi ha complicato tutto. L’ultimo scontro è in corso e riguarda le poste che assumono un ruolo strategico se buona parte del voto nelle presidenziali passerà di là. Sei stati, California, Oregon, Washington, Hawaii, Colorado e Utah hanno deciso di votare per corrispondenza e il presidente ha messo in guardia dal rischio brogli fino al punto da dichiarare che in caso di sconfitta potrebbe non accettarla. Nel 2016 Hillary Clinton prese tre milioni di voti in più, poi il meccanismo elettorale indiretto e il gioco degli stati ha sancito la sua sconfitta. Oggi il gap potrebbe aumentare e Trump mette le mani avanti. Da anni il presidente cerca di smantellare il sistema postale (600 mila addetti e 31 mila uffici in tutto il paese) non solo per risparmiare, ma perché pensa così di colpire Jeff Bezos, visto che Amazon usa le poste per consegnare le sue merci. A maggio il presidente ha messo a capo del servizio Louis Dejoy un suo finanziatore che dovrebbe pilotare la grande purga. Ma adesso la questione diventa sensibile sul piano politico e costituzionale. Nancy Pelosi non si è fatta scappare l’occasione e ha convocato i parlamentari impegnati nella campagna elettorale, mentre lunedì in Senato è attesa la testimonianza di Dejoy.

  

La crisi sanitaria ha avuto un impatto durissimo sull’economia, nonostante il boom dei titoli finanziari. Lo scontro sulle poste

L’odio di Trump verso la leader della Camera è arrivato al punto da diventare controproducente per la sua stessa politica. Il pacchetto per rilanciare l’economia è bloccato. Nancy Pelosi aveva proposto un intervento di 4 mila miliardi di dollari: passato alla Camera, è fermo in Senato. I Democratici hanno accettato di ridurre di mille miliardi le loro pretese alla condizione però che vengano utilizzati per la spesa pubblica almeno duemila miliardi non solo mille come propone la Casa Bianca. Una richiesta definita “impossibile” da attuare dal segretario al Tesoro, Steve Mnuchin, e dal capo di gabinetto, Mark Meadows. L’ala rigorista del Partito repubblicano, che predica la disciplina di bilancio e resta contraria a un eccessivo intervento dello stato nell’economia, punta i piedi. Il disavanzo pubblico è arrivato al 16 per cento del pil, tra i più alti dei paesi industrializzati ed è destinato a peggiorare ancora. I sussidi di disoccupazione straordinari e gli aiuti alle famiglie sono scaduti ai primi di agosto, il presidente li ha prorogati firmando gli ordini esecutivi davanti alla stampa nel suo golf club del New Jersey, tuttavia i disoccupati riceveranno 400 dollari al mese non i 600 che avevano avuto finora. La crisi sanitaria ha avuto un impatto durissimo sull’economia, con il prodotto lordo che nel secondo trimestre ha subito un calo record del 32,9 per cento su base annuale e del 9,5 per cento rispetto ai tre mesi precedenti. Il mercato del lavoro ha dato intanto qualche segnale di ripresa, con il tasso di disoccupazione che dall’11,1 per cento di giugno è sceso al 10,2 per cento a luglio, mese nel quale sono stati creati 1,8 milioni di nuovi posti di lavoro.

  

Biden convincerà i dubbiosi, i delusi, i traditi? Per rispondere è importante capire dove si dirigeranno i lupi di Wall Street. Il boom dei titoli finanziari, nonostante la pandemia, ha il sapore della speculazione grazie alla immensa quantità di moneta liquida uscita dai rubinetti della Banca centrale, ma è anche una scommessa sulla ripresa. La Borsa non è il casinò dei ricchi (almeno non solo), piuttosto è diventata la grande piattaforma alla quale la classe media americana affida i propri risparmi, l’emblema del “capitalismo popolare”, come lo chiamavano i seguaci di Bill Clinton, esploso negli anni 80-90. Gli umori di Wall Street, le sue aspettative, i suoi alti e bassi rispecchiano vasti movimenti di massa e li influenzano. Tra gli investitori rimangono i timori legati alla nuova esplosione di casi di Covid-19, lo stallo sul piano per la ripresa economica e le tensioni tra Washington e Pechino, dopo che è saltato l’atteso incontro tra i due paesi in tema di commercio. Ma l’indice Standard & Poor’s dei 500 migliori titoli ha segnato un nuovo record martedì scorso, trascinato ancora una volta dai colossi high tech. La Apple ha raggiunto una capitalizzazione di 2.200 miliardi di dollari con un balzo del 59 per cento dall’inizio dell’anno a conferma di quanto la pandemia abbia accelerato la rivoluzione digitale. La Tesla ha battuto ogni attesa, forse anche le speranze di Elon Musk. L’euforia della finanza favorirà l’usato sicuro per quanto svalvolato possa apparire, o prevarrà il timore che The Donald, un personaggio bizzarro, psicologicamente instabile, politicamente imprevedibile prenda il suo secondo mandato come la scena nella quale scatenare tutti i suoi umori? La partita è aperta, ben oltre i risultati dei sondaggi dei quali è sempre bene diffidare. Il vantaggio di Biden non è sufficiente ad assicurargli il successo. E, fidelizzate le proprie truppe, la conquista del centro diventa decisiva. Il centro sociale, economico, geografico. In altre parole il Midwest.

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