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(1923-2020)

Romiti, il legionario di una guerra senza prigionieri

Giuliano Ferrara

Le Br, i 40 mila, il ripristino law & order della fabbrica e la difesa dell’Azienda. Senso del potere e del tempo per lasciare

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Che fosse simpatico non si può dire, e compiacere non era il suo mestiere, ma certo Cesare Romiti (1923-2020) era un tipo tosto, squadrato, una marionetta vispa intessuta di fili d’acciaio, sapeva come fare e come picchiare, sprimacciava e rassettava l’azienda il comando la politica con abilità manipolatoria indiscussa, seppe funzionare come strumento della Provvidenza e della famiglia Agnelli anche nell’arena della lotta di classe e della sua ultima manifestazione novecentesca, la lotta alla Fiat in epoca di terrorismo dispiegato. Aveva anche altre caratteristiche importanti. Era un romano in terra straniera (Torino, poi Milano nella regione di cui era re il siciliano Cuccia), e le sue idiosincrasie lo salvarono, lui molto mondano e anche chiassoso nella sua umanità e personalità socievole, da compromessi di stile che sarebbero risultati pacchiani, detestava quasi tutti e liquidava gli intermediari con cinismo spietato, appunto, da legionario disperso in una guerra senza prigionieri. Aveva un’attitudine benevola verso chi gli serviva e lo serviva, in particolare i giornalisti, ma era solo il condimento della trippa finanziaria applicata all’industria manifatturiera e all’editoria. Seppe ascendere imperterrito contro l’avventuroso De Benedetti e molti altri pretendenti che divoravano capretti e maiali portati alla corte di Telemaco dal porcaro Eumeo, e seppe anche discendere, garantitosi una serena lunga e attiva vecchiaia, quando le cose si misero male per lui e la famiglia.

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Che fosse simpatico non si può dire, e compiacere non era il suo mestiere, ma certo Cesare Romiti (1923-2020) era un tipo tosto, squadrato, una marionetta vispa intessuta di fili d’acciaio, sapeva come fare e come picchiare, sprimacciava e rassettava l’azienda il comando la politica con abilità manipolatoria indiscussa, seppe funzionare come strumento della Provvidenza e della famiglia Agnelli anche nell’arena della lotta di classe e della sua ultima manifestazione novecentesca, la lotta alla Fiat in epoca di terrorismo dispiegato. Aveva anche altre caratteristiche importanti. Era un romano in terra straniera (Torino, poi Milano nella regione di cui era re il siciliano Cuccia), e le sue idiosincrasie lo salvarono, lui molto mondano e anche chiassoso nella sua umanità e personalità socievole, da compromessi di stile che sarebbero risultati pacchiani, detestava quasi tutti e liquidava gli intermediari con cinismo spietato, appunto, da legionario disperso in una guerra senza prigionieri. Aveva un’attitudine benevola verso chi gli serviva e lo serviva, in particolare i giornalisti, ma era solo il condimento della trippa finanziaria applicata all’industria manifatturiera e all’editoria. Seppe ascendere imperterrito contro l’avventuroso De Benedetti e molti altri pretendenti che divoravano capretti e maiali portati alla corte di Telemaco dal porcaro Eumeo, e seppe anche discendere, garantitosi una serena lunga e attiva vecchiaia, quando le cose si misero male per lui e la famiglia.

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Il suo capolavoro fu l’aver capito qualcosa che la vecchia guardia gloriosa del sindacalismo cameralavorista e Fiom di Torino sapeva perfettamente ma nascondeva a sé stessa: le Bierre erano in fabbrica, erano organizzate e vigili tra le avanguardie militanti della Fiat Mirafiori e degli altri stabilimenti, non si comportavano come un partito segreto ma come un partito armato capace di dispiegare la sua potenza nei reparti, e dunque potevano essere sfidate e battute solo in una logica di emergenza e di forza. 

   

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Con l’occasione, e questo fu la marcia dei quarantamila o quanti volete che fossero, per Romiti era possibile ripristinare una misura minima di legge e ordine, sopra tutto dopo i licenziamenti dei 61 capi interni del terrorismo e le manifestazioni di solidarietà di sindacati e Dario Fo al Palazzetto dello Sport. Così, con i licenziamenti successivi allo sfondamento e due mesi di blocco della produzione e del lavoro, frantumò l’ultima vecchia tradizione sindacale e politica degli operai torinesi, le ubbie sul nuovo modo di organizzare il lavoro, il controllo dal basso della grande fabbrica meccanizzata da parte di quelli che allora erano chiamati gli sfruttati. Non si poteva contrastare il potere proprietario e gerarchico del capitalismo mentre le fabbriche venivano incendiate, i capi gambizzati o uccisi o inquadrati con le bandiere rosse alla testa di cortei violenti, mentre nella città fornace dei processi alle Bierre, dello spavento civile tra i quadri, i giornalisti, gli intellettuali, i borghesi e i comunisti, lì era possibile la grande rivincita e la ripresa in mano delle redini di un’azienda umiliata e prostrata da disprezzo e violenza organizzata.

 

Si è poi dipanata la leggenda degli anni duri di Romiti alla Fiat, la solita balla del capitano di ventura isolato che sfida i leoni, ma furono anni durissimi per lui come per tutti, il gestore dell’Avvocato raccolse la vecchia bandiera del produttivismo e dell’alleanza tra produttori nel momento in cui i capi del movimento operaio l’avevano ammainata, non fu Maramaldo perché rischiò eppure uccise un uomo morto. I primi passi nel cielo del potere questo romano di destino e di peso li compì in una nuvola securitaria, compariva e spariva nei luoghi di decisione pubblica, dove il Pci aveva conquistato spazio e influenza, con la rude e prepotente agilità di una stella cometa del nuovo comando, in anni segnati dalla rivoluzione thatcheriana e dal decisionismo reaganiano. Riconferì all’industria leader e alla famiglia regnante quell’aura onnipotente, alla Vittorio Valletta, che si era sparsa e offuscata nelle generose e un po’ folli divagazioni dell’Avvocato quando fu eletto presidente della Confindustria e intortato da Lama nel famigerato accordo sul punto unico di contingenza.

  

La storia e le storie hanno un loro percorso di continuità che i destini personali e le corrispondenti immagini suggellano in modo spesso equivoco. Ma in questo caso tutto è chiaro. Sergio Marchionne ha reinventato la Fiat e le relazioni industriali, che è il nome contemporaneo edulcorato della lotta di classe, ma non avrebbe avuto niente da reinventare se Romiti non l’avesse preservata dal peggio, con le buone e con le cattive. Qualcosa in fondo a tipi come Romiti deve anche un Mario Draghi, che ha tenuto un discorso magistrale brillante e speranzoso nel giorno in cui Romiti è morto, e aveva stampata in faccia la vistosa alterità culturale di un tecnocrate e Grand Commis de l’État del nuovo secolo, un protagonista in tocco e toga del sistema europeo di consenso e di amministrazione della moneta e del lavoro, un profilo lontano lontano dalla maschera di ferro del manager del secolo scorso.

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