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La parabola di un manager

Ugo Bertone

Il rilancio della Fiat, la fedeltà all’Avvocato, lo scontro con Ghidella e le ultime battaglie di retroguardia

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Milano. La crisi, amava ricordare Cesare Romiti, esplose quando il ministro del Lavoro Carlo Donat-Cattin letteralmente sequestrò nel suo ufficio al ministero l’Avvocato Agnelli: “Lei di qui, caro Agnelli, non esce – era la ricostruzione del manager – se la Fiat non cancella subito quei licenziamenti. E l’Avvocato quella volta si piegò. E cominciarono i nostri guai”. Ma fu in quel momento, anno 1979, che il manager Romiti rivelò quella tempra di combattente che nel giro di pochi mesi gli valse il soprannome di “cinghialone” ai piani alti di corso Marconi, il quartier generale della Fiat. La prima cosa da fare, decise, era di non esporre più gli azionisti, cioè Gianni Agnelli e il fratello Umberto al fuoco di fila della protesta operaia (e non solo). Cominciarono così, con una manifestazione di coraggio non indifferente “quegli anni alla Fiat”, ovvero l’avventura dell’uomo che più di tutti ha incarnato il capitalismo italiano del Novecento, incrocio tra industria, finanza e potere politico.

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Milano. La crisi, amava ricordare Cesare Romiti, esplose quando il ministro del Lavoro Carlo Donat-Cattin letteralmente sequestrò nel suo ufficio al ministero l’Avvocato Agnelli: “Lei di qui, caro Agnelli, non esce – era la ricostruzione del manager – se la Fiat non cancella subito quei licenziamenti. E l’Avvocato quella volta si piegò. E cominciarono i nostri guai”. Ma fu in quel momento, anno 1979, che il manager Romiti rivelò quella tempra di combattente che nel giro di pochi mesi gli valse il soprannome di “cinghialone” ai piani alti di corso Marconi, il quartier generale della Fiat. La prima cosa da fare, decise, era di non esporre più gli azionisti, cioè Gianni Agnelli e il fratello Umberto al fuoco di fila della protesta operaia (e non solo). Cominciarono così, con una manifestazione di coraggio non indifferente “quegli anni alla Fiat”, ovvero l’avventura dell’uomo che più di tutti ha incarnato il capitalismo italiano del Novecento, incrocio tra industria, finanza e potere politico.

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Nel 1980, quando gli vengono affidati i pieni poteri, sono in molti a pensare che la Fiat, almeno come capofila dell’economia privata, abbia i giorni contati: i conti dell’azienda, che non ha ancora un bilancio consolidato, fanno acqua da tutte le parti; i soldi che Gheddafi ha messo in azienda (360 miliardi dell’epoca) non sono sufficienti a colmare i buchi nei confronti del sistema bancario; si moltiplicano gli atti di intolleranza e gli attentati contro manager e quadri dell’azienda.

 

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Il sostegno della classe politica all’azienda è quantomeno tiepido, il sindacato, specie nelle officine, tace. Insomma, Romiti sembra un pugile alle corde, destinato a fallire nell’impresa che Carlo De Benedetti ha lasciato cadere, forse perché davvero impossibile. Perfino Fruttero e Lucentini, i giallisti che conoscono a fondo la Torino dell’auto, imbastiscono la trama del loro best seller “A che punto è la notte” sull’ipotesi, tutt’altro che peregrina, dell’emigrazione del gruppo dall’Italia.

 

Ma è in quel momento che l’Italia scopre di che pasta è fatto Cesare, figlio di un impiegato delle Poste, romano, studente lavoratore che, dopo il diploma da ragioniere, si è laureato a pieni voti prima di entrare alla Bomprini Parodi Delfino, azienda destinata a fondersi con la Snia. E’ in occasione della fusione che Romiti farà l’incontro che gli cambierà la vita, quello con Enrico Cuccia che si ricorderà di lui, nel frattempo finito in Alitalia, quando si trattò di trovare un manager disposto a giocare la partita della vita in Fiat.

 

Il duello comincia quando Romiti, alle prese con un problema strutturale di esuberi, passa all’attacco annunciando il licenziamento di 14 mila dipendenti (su 320 mila). E’ il prologo di uno scontro senza quartiere che ha per teatro Mirafiori, bloccata dai sindacati, mentre Enrico Berlinguer in persona assicura il sostegno del Pci in caso di occupazione. Ma Romiti non si tira indietro. Dalla sua ci sono alcuni jolly.

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L’Avvocato ha avuto dall’amico Wallenberg, proprietario della Riv, la licenza ad assumere Vittorio Ghidella, il mago dell’auto che, lontano da cortei e occupazioni, sta mettendo a punto la Uno, l’auto della possibile riscossa. “Ma prima di dare il via libera alla produzione – dice il numero uno di Mirafiori – dovete liberare le fabbriche”. E per riuscirci Romiti scova alleati improbabili: i quadri aziendali, ovvero gli impiegati e i non pochi operai che danno vita alla “Marcia dei 40 mila” che segna virtualmente la fine dell’autunno caldo. E’ questa l’apoteosi di Romiti l’industriale che, in realtà, di industria e di auto ne masticava poco, come del resto Cuccia che sempre diffidò di chi amava visitare le fabbriche. A differenza di Ghidella, il protagonista del boom dell’auto che, a fine anni Ottanta, rappresentava l’85 per cento dei profitti del gruppo che Romiti stava spostando verso la finanza ed altre attività.

 

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Il divorzio tra i due manager segna una sconfitta per Ghidella, che finisce presto sul viale del tramonto (anche perché Romiti osteggia il suo trasloco in Ford). Ma la Fiat, impoverita dalla “purga” di 300 collaboratori dell’auto, perderà la spinta degli anni buoni, quando Mirafiori faceva concorrenza alla Volkswagen. Romiti, straordinario e coraggioso manager negli anni della ristrutturazione industriale, negli ultimi anni in Fiat si dedicherà alla battaglia di retroguardia contro la minaccia delle auto giapponesi, rivelando più la tempra dell’uomo di potere che non la fantasia che accompagna i creativi di successo. E l’esperienza di Romiti l’industriale si spense a poco a poco nonostante le risorse finanziarie rese possibili dalla liquidazione (105 miliardi di vecchie lire). Anche perché perché, come ebbe a dire. “Sono stato più duro come manager che come imprenditore”. Sempre, però, con la schiena ritta e la fedeltà a prova di bomba, seppur mai servile, nei confronti dell’Avvocato.

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