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Addio a Cesare Romiti, manager di sistema che riportò in alto la Fiat

Stefano Cingolani

E' morto a 97 anni un protagonista di primo piano della recente storia nazionale, un uomo che ha accompagnato l’autunno della prima repubblica e il declino delle grandi famiglie che avevano portato il capitalismo italiano tra i grandi

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Scompare con Cesare Romiti (nato a Roma il 24 giugno 1923) un protagonista di primo piano della recente storia nazionale, un uomo che ha accompagnato l’autunno della prima repubblica e il declino delle grandi famiglie che avevano portato il capitalismo italiano tra i grandi. A metà degli anni Ottanta avviene un doppio sorpasso: il prodotto lordo dell’Italia supera quello britannico e la Fiat di Gianni Agnelli guidata da Romiti batte per una incollatura la Volkswagen. Poi comincia la discesa lungo un piano inclinato. “La festa è finita”, sentenzia nel 1990 l’Avvocato, la Fiat è in crisi nera, poco dopo crolla la lira minata dalla sua intrinseca debolezza e si sfalda il sistema politico sotto i colpi della magistratura. Tangentopoli dimostrerà che nemmeno l’aristocrazia del capitale aveva le mani pulite. Con l’orgoglio e la lealtà che lo ha sempre contraddistinto, Romiti prese la croce sulle sue spalle, proteggendo Agnelli che Antonio Di Pietro aveva messo nel mirino.

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Scompare con Cesare Romiti (nato a Roma il 24 giugno 1923) un protagonista di primo piano della recente storia nazionale, un uomo che ha accompagnato l’autunno della prima repubblica e il declino delle grandi famiglie che avevano portato il capitalismo italiano tra i grandi. A metà degli anni Ottanta avviene un doppio sorpasso: il prodotto lordo dell’Italia supera quello britannico e la Fiat di Gianni Agnelli guidata da Romiti batte per una incollatura la Volkswagen. Poi comincia la discesa lungo un piano inclinato. “La festa è finita”, sentenzia nel 1990 l’Avvocato, la Fiat è in crisi nera, poco dopo crolla la lira minata dalla sua intrinseca debolezza e si sfalda il sistema politico sotto i colpi della magistratura. Tangentopoli dimostrerà che nemmeno l’aristocrazia del capitale aveva le mani pulite. Con l’orgoglio e la lealtà che lo ha sempre contraddistinto, Romiti prese la croce sulle sue spalle, proteggendo Agnelli che Antonio Di Pietro aveva messo nel mirino.

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Anni fa, mentre stavo scrivendo un libro (mai finito) sullo “stato nello stato” come Antonio Gramsci e Benito Mussolini avevano definito la Fiat, incontrai un Romiti amaro e disilluso anche sul gruppo che aveva risollevato dalle ceneri negli anni Settanta riportandolo al ruolo centrale nel sistema italiano che aveva ai tempi di Vittorio Valletta. Con una differenza, se vogliamo, che è figlia dei tempi. Valletta non amava Roma e i suoi rituali, prendeva una volta la settimana il wagon-lit, faceva “il giro delle sette chiese” e ripartiva in vagone letto la sera stessa. A Romiti bastava una telefonata per contattare i palazzi della politica che nel frattempo si erano moltiplicati. Resta nella memoria storica il suo rapporto con Bettino Craxi, basato sulla rivalità di due caratteri imperiosi che non si amavano, ma finirono per essere alleati. La Fiat ottenne il monopolio interno nell’auto con la presa dell’Alfa Romeo mentre Romano Prodi (capo dell’Iri) preferiva la Ford. In cambio, il gruppo fece da traino all’intero paese.

   

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Nel corso del mio incontro, Romiti gettò uno sguardo malinconico sull’azienda per la quale tanto si era speso, non amava Sergio Marchionne e lo criticava apertamente, sospendeva il giudizio su John Elkann, ma non lo riteneva all’altezza del nonno. Invece, il manager italo-americano dopo averla salvata dal fallimento ha dato alla Fiat quella dimensione globale che non era nelle corde di Romiti, quanto a Elkann ha moltiplicato oltre ogni previsione il valore del gruppo ormai diventato una vera multinazionale. Il vecchio leone, dunque, aveva torto anche se comprendevo la sua amarezza, così come era sbagliata l’adesione senile al tanto peggio tanto meglio che lo aveva indotto ad appoggiare Beppe Grillo pensando di ripetere il suo sostegno alla Lega di Umberto Bossi nei primi anni Novanta. Del resto, il manager tuonava spesso contro la politique politicienne con argomenti che oggi chiameremmo nazional-populisti. Tutto ciò faceva parte del suo essere uomo politico, non solo di conti e d’azienda, una delle ragioni che avevano spinto Enrico Cuccia a portarlo dall’Iri (aveva diretto l’Alitalia e l’Italstat) al vertice della Fiat in uno degli anni più difficili, il 1974, mentre l’Avvocato presiedeva la Confindustria e cercava un “patto dei produttori” con i sindacati e la Cgil di Luciano Lama.

     

Si è detto che Romiti era l’emissario di Cuccia, i suoi occhi e i suoi orecchi in Corso Marconi; è vero nel senso che il manager romano mantenne un rapporto di devozione con il grande banchiere, ma gli si fa un torto se non si considera il ruolo autonomo che ha svolto nella Fiat. E’ stato scritto che Romiti non sapeva molto di automobili e la sconfitta di Vittorio Ghidella (l’ingegnere che aveva firmato il grande successo della Uno) nel 1988 fu determinante per la crisi che poco dopo colpì la Fiat. Lo scontro per il potere coinvolgeva anche Umberto Agnelli non amato nemmeno da Cuccia. Certo, Romiti era un “manager di sistema” non di prodotto, del resto guidava non solo un produttore di autovetture, ma un pilastro del sistema Italia. Tra i grandi avversari di Romiti oltre a Prodi e Ciriaco De Mita, spicca Carlo De Benedetti per pochi mesi suo compagno di banco in Corso Marconi nel 1976. Buoni sono stati i suoi rapporti con Silvio Berlusconi che gli offrì di entrare in Fininvest dopo l’uscita dalla Fiat, anche se, a differenza dall’Avvocato, era scettico sulla “discesa in campo” del Cavaliere. Tra i protagonisti degli anni Novanta stimati da Romiti c’è Massimo D’Alema nonostante fosse un (ex) comunista.

     

Molto importante è stato il ruolo nell’informazione, perché la Fiat prese le redini al Corriere della Sera dopo lo scandalo della P2 e Romiti è stato presidente della Rcs dal 1998 al 2004, una posizione ottenuta come “buonuscita” dopo la rottura tra l’Avvocato e Cuccia che segnò anche il passaggio di consegne a Paolo Fresco al vertice del gruppo. Ma questa è solo parte della realtà. Romiti coltivava un’ambizione più grande: diventare imprenditore e avviare, insieme ai figli Piergiorgio e Maurizio, un nuovo percorso non più come grand commis del capitale, ma come capitalista attraverso la Gemina che oltre a Rcs controllava la Impregilo e in parte gli Aeroporti di Roma. Qui non ha avuto successo per una serie di motivi, ma anche perché i tempi erano cambiati. Di questa nuova fase dell’Italia e della sua economia Romiti non è stato protagonista, anzi possiamo dire che non l’abbia capita. Lo snodo essenziale è la fine del protezionismo che per gran parte aveva sostenuto anche la Fiat, quindi l’apertura dei mercati che segnerà non a caso la caduta dell’auto made in Italy, l’integrazione in istituzioni internazionali come l’Unione europea e la moneta unica verso la quale Romiti aveva manifestato il suo aperto scetticismo. Un altro mondo che ha reso più procellosa e difficile la navigazione italiana, una realtà della quale ha preso atto, invece, la Fiat di Marchionne e di Elkann, fino a tirarne le estreme conseguenze. Romiti è stato il grande interprete di un’opera che, a parte un manipolo di nostalgici, non ha più spettatori.

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