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Una Borsa piccola piccola

Stefano Cingolani

La finanza italiana è un’eterna incompiuta. Ma nazionalizzare Piazza Affari potrebbe non bastare

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L’articolo 1 recita così: “Le borse di commercio sono istituite con Regio decreto, su proposta della competente Camera di commercio. Il decreto di istituzione indica per ciascuna borsa, secondo le proposte della Camera di commercio, per quali specie di contrattazione sia istituita”. L’articolo 2 sancisce che “le borse di commercio sono sottoposte alla vigilanza del governo, delle Camere di commercio, delle Deputazioni di borsa e dei Sindacati di mediatori. I ministri di Agricoltura, Industria e Commercio e del Tesoro possono in ogni tempo ordinare di concerto ispezioni alle borse di commercio e, sentita la Camera di commercio, emanare i provvedimenti reputati di volta in volta necessari, secondo le speciali condizioni del mercato, per assicurare il regolare andamento degli affari nelle singole borse”. Sono le prime due voci della legge 20 marzo 1913 n. 272 le cui disposizioni vennero abolite definitivamente al culmine dell’ebbrezza globalista ed europeista che nel 1998 aveva portato alla privatizzazione della Borsa italiana, o meglio della società che organizza e gestisce il mercato dei titoli azionari. A quelle norme arcaiche gettano uno sguardo nostalgico i sostenitori della ri-nazionalizzazione.

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L’articolo 1 recita così: “Le borse di commercio sono istituite con Regio decreto, su proposta della competente Camera di commercio. Il decreto di istituzione indica per ciascuna borsa, secondo le proposte della Camera di commercio, per quali specie di contrattazione sia istituita”. L’articolo 2 sancisce che “le borse di commercio sono sottoposte alla vigilanza del governo, delle Camere di commercio, delle Deputazioni di borsa e dei Sindacati di mediatori. I ministri di Agricoltura, Industria e Commercio e del Tesoro possono in ogni tempo ordinare di concerto ispezioni alle borse di commercio e, sentita la Camera di commercio, emanare i provvedimenti reputati di volta in volta necessari, secondo le speciali condizioni del mercato, per assicurare il regolare andamento degli affari nelle singole borse”. Sono le prime due voci della legge 20 marzo 1913 n. 272 le cui disposizioni vennero abolite definitivamente al culmine dell’ebbrezza globalista ed europeista che nel 1998 aveva portato alla privatizzazione della Borsa italiana, o meglio della società che organizza e gestisce il mercato dei titoli azionari. A quelle norme arcaiche gettano uno sguardo nostalgico i sostenitori della ri-nazionalizzazione.

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Fondata nel 1808, la piazza finanziaria di Milano è tra le dieci più vecchie al mondo e non è mai riuscita a compiere il grande balzo verso la modernità. Il primo passo è avvenuto negli anni ’90 quando tutte le borse locali vennero centralizzate e furono dati maggiori poteri alla Consob, la commissione di controllo. Il più ambizioso tentativo risale senza dubbio al 2007 quando la borsa milanese venne fusa con quella di Londra per poi agganciare anche la Deutsche Börse (operazione fallita perché si mise di traverso l’Unione europea all’insegna della lotta al monopolio). Adesso, è finita. Il London Stock Exchange viene costretto a vendere in seguito alla fusione con Refinitiv la società che gestisce piattaforme tecnologiche controllata da Blackstone e Thomson Reuters. In Italia spunta la nazionalizzazione verso la quale spingono il M5s e la Lega, che presiede il Copasir, il Comitato parlamentare nato come cane da guardia dei servizi di intelligence, ma diventato negli ultimi tempi una sorta di ufficio per la pianificazione economica e industriale: ha messo in riga i manager “stranieri” che guidano le banche italiane (a cominciare da Jean Pierre Mustier di Unicredit), preme per rafforzare ovunque le aziende nazionali, e adesso spinge per “riportare in patria” la borsa, con l’aiuto della Cassa depositi e prestiti, chiamata in causa ormai in ogni occasione, dalla rete telefonica al trasporto aereo, dagli hotel ai gelati. Ma che cos’è la Borsa di Piazza Affari? Vale davvero la pena di nazionalizzarla? E’ una scelta che rafforza l’economia domestica e favorisce i risparmiatori?


L’ultima a dire addio è la Gedi: acquisita dalla Exor, la società editrice di Repubblica, Espresso e la Stampa, viene cancellata dal listino


 

L’ultima a dire addio è la Gedi: acquisita completamente dalla Exor, la società editrice di Repubblica, dell’Espresso, della Stampa, viene cancellata dal listino. Ma il catalogo degli abbandoni è fitto di nomi rilevanti: Luxottica quotata a Parigi dopo la fusione con Essilor, Ansaldo, Parmalat, Damiani, Vittoria Assicurazioni, Beni Stabili, Nice, Italiaonline, solo per citare qualche bel marchio. Non sono mai entrate in borsa alcune delle maggiori imprese famigliari come Ferrero, Barilla, Prada, Fila. Vicende diverse, un’unica storia: il mercato finanziario in Italia non è decollato, ha avuto fiammate intense ma brevi grazie all’irruzione dei nuovi condottieri (Berlusconi, De Benedetti, Gardini, Benetton) finché nel 1986 non è scoppiata la bolla e un decennio dopo, con la stagione delle privatizzazioni chiusa dal crac della new economy, calma piatta. Dal 1951 al 1961 le grandi società private hanno occupato i primi posti della graduatoria (Edison, Montecatini, Fiat) seguite da alcune imprese a controllo pubblico (Sip, Sme, Finsider e Stet). Ancora nel 1971 era la Fiat a guidare la graduatoria delle prime dieci società quotate (sulle 132 presenti sul listino), poi la Montedison (nata dalla fusione tra la Montecatini e la Edison), le Assicurazioni Generali, Italcementi e Pirelli. Comincia allora la “bancarizzazione” con l’ingresso nel listino di istituti di credito, alcuni dei quali saranno ingoiati dai grandi gruppi bancari sorti con la trasformazione degli istituti di credito pubblici in società per azioni. Saranno loro a quel punto a presidiare più o meno stabilmente le posizioni di testa.

 

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Prima della pandemia erano in pole position Eni ed Enel, due società controllate dallo stato, seguite da Intesa, Generali, Atlantia, Unicredit, StMicroelectronics (che fa capo ai governi italiano e francese), Fca, Snam anch’essa pubblica, Telecom Italia. Il quadro si fa ancora più impressionante mettendo insieme le società nelle quali comuni e regioni sono azionisti di riferimento: Poste, Terna, Leonardo, Hera, A2A, Italgas, Saipem, Acea. Nell’insieme le nuove partecipazioni statali fatturano tre volte più delle aziende private e dominano nei servizi e nell’energia. La classifica cambia soltanto sommando i titoli Exor, Fca, Ferrrari, Cnh: in questo caso la famiglia Agnelli balzerebbe al quarto posto. Tra i primi titoli e gli altri la distanza è rimasta molto, troppo ampia; l’“ascensore del capitale”, se così vogliamo chiamarlo, si è bloccato: oltre alla democrazia politica non funziona nemmeno quella economica. La capitalizzazione della Borsa italiana ammontava a 651 miliardi di euro nel 2019, l’un per cento circa del pil mondiale, mentre il prodotto interno lordo dell’Italia sfiora il 2,4 per cento. Il capitale finanziario che circola a Piazza Affari, dunque, è ampiamente sottodimensionato. La piazza di Francoforte arriva a 1.700 miliardi di euro, la City di Londra a 3.500. Le società quotate a Milano sono 375 (132 sul mercato delle piccole imprese) a Wall Street 2.400 più le 3.100 del Nasdaq, a Tokio 3.700, a Madrid 3.506, a Hong Kong 2.466, a Londra 2.386 provenienti da 70 paesi, a Shangai 1.700, a Parigi 1.061, a Francoforte 592, a Istanbul 381, a Tel Aviv 451.

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Con il mercato unico europeo e il venir meno del protezionismo interno si compie “il regresso del capitalista finanziario italiano”


 

“Come è possibile che il capitalismo italiano, e quello finanziario in particolare, non abbia saputo imboccare – sulla scorta di nuove regole del gioco – la via di una non effimera modernizzazione?”, si chiede Franco Locatelli nella prefazione al libro dell’economista Filippo Cavazzuti intitolato “Il capitalismo finanziario italiano, un’araba fenice” e da poco uscito per le edizioni goWare. Di chi è la colpa, delle formichine italiche che preferiscono tenere sotto il materasso i loro risparmi, pari ancora oggi a otto volte il prodotto lordo? L’ufficio analisi di Mediobanca mostra che le azioni nazionali non sono state remunerative: 100.000 euro investiti a gennaio 2009 sarebbero diventati, dieci anni dopo, 107.300 con la Borsa Italiana, 186.800 se dirottati nelle borse europee, 270.300 in quelle mondiali. La rischiosità del listino milanese è quasi doppia rispetto all’indice internazionale: 21,72 per cento contro 11,35 per cento. Altro che Wall Street o la City, il vero casinò ce l’abbiamo in casa, l’instabilità regna a Piazza Affari. E il divario rispetto alle maggiori borse europee è aumentato: secondo Mediobanca, Milano indossa costantemente la maglia nera. Se volesse tener fede al suo slogan “prima gli italiani” la Lega salviniana dovrebbe battersi per spingere i risparmiatori a investire all’estero. Per amor del vero bisogna dire che alcuni esponenti leghisti lo fanno e con profitto.

 

La società che il London Stock Exchange mette in vendita rispecchia dunque una realtà modesta non solo rispetto alla concorrenza, ma anche considerando le potenzialità dell’economia italiana. Inutili sono stati i tentativi di far crescere un mercato finanziario che nessuno vuol vedere davvero adulto. Usato come un suk o come una mucca da mungere (basti pensare che i malcapitati investitori che non facevano parte di patti oligarchici detti impropriamente di sindacato, venivano chiamati parco buoi), anche se molte cose sono cambiate, la Borsa italiana resta una incompiuta. Lo riconosce amaramente Cavazzuti che ha lavorato una vita per farla crescere e per costruire istituzioni avanzate e moderne. Nel libro cita Rudolf Hilferding, l’economista marxista che nel suo testo più famoso, “Il capitalismo finanziario”, sottolinea tra i primi il ruolo strategico della Borsa, mettendone in luce il lato oscuro: non tanto la odiatissima speculazione, quanto “una particolare tecnica finanziaria il cui scopo consiste nell’assicurare col più piccolo capitale possibile il controllo più grande possibile sul capitale altrui”. E’ un male diffuso, naturalmente, tuttavia in Italia si è propagato più che altrove, minando la stessa credibilità della Borsa “disertata dal capitalismo finanziario”, scrive Cavazzuti, e dal “capitalismo popolare”, cioè quello che in paesi come gli Stati Uniti ha alimentato il boom degli anni 90 quando i dividendi di Borsa contavano nel reddito del cittadino medio quanto e forse più dello stipendio. Nella media degli ultimi vent’anni, soltanto il 10-12 per cento delle società quotate a Piazza degli Affari può essere considerato potenzialmente contendibile sul mercato; il 50 per cento di esse è ancora controllato di diritto; il 20 per cento controllato di fatto; il rimanente 17 per cento gestito da un patto di sindacato; il primo azionista detiene mediamente una quota del capitale sociale intorno al 42-43 per cento. Piramidi e scatole cinesi, insomma, non sono affatto sparite.


Tra i primi titoli quotati e gli altri la distanza è rimasta molto, troppo ampia; l’“ascensore del capitale” si è bloccato


 

Il caso italiano rimette in discussione il paradigma positivo di Robert Shiller. Secondo l’economista americano, è stato il capitalismo finanziario, quando ha preso il sopravvento come forza motrice del sistema soprattutto nei “ruggenti anni 90”, a trascinare le altre imprese verso “la società giusta”, rispondendo a nuovi bisogni, diffondendo la proprietà, distribuendo in massa i dividendi direttamente o attraverso i fondi di investimento. Quando le “vedove scozzesi” o persino le mitiche “massaie di Voghera” hanno il loro pacchettino di azioni, l’economia si espande e si democratizza. Abbiamo visto che questo processo è stato interrotto anche negli Stati Uniti, dove si era spinto più avanti. In Italia non s’è mai sviluppato davvero. In parte perché i titoli del debito pubblico hanno spiazzato quelli del debito privato (il Bot people degli anni 80 ha creato una sottoclasse di redditieri che di fatto non ha alcun interesse a risanare i conti pubblici), in parte perché la Borsa è rimasta quella piccola, ma gonfia di “lor signori”.

 

Il male viene da lontano, probabilmente dalla nazionalizzazione dell’energia elettrica avvenuta non acquistando le azioni a prezzi di mercato, bensì pagando agli industriali consistenti indennizzi. Sarebbe un caso da studiare, oggi che torna di moda nazionalizzare e, come dimostra la discussione attorno al caso Autostrade, proprio attraverso il pagamento degli asset industriali. Cavazzuti ricorda la battuta amara di Guido Carli: “L’ingegner Valerio (il gran capo della Edison, ndr) fece di tutto per farsi nazionalizzare, presentandosi agli incontri quasi in forma di caricatura dell’imprenditore forcaiolo”. Nasce allora anche il rapporto perverso tra impresa pubblica e impresa privata, tra capitalisti di stato e capitalisti privati, “una sorta di dualismo zoppo sempre a favore degli interessi privati - scrive Cavazzuti - Nel senso che erano le imprese private decotte a essere cedute alle partecipazioni statali e non quelle sane a essere cedute ai privati: forse perché questi ultimi non intendevano investire nelle industrie manifatturiere, assumendone il rischio della gestione e quello di mercato”. Il dualismo zoppo riguardò, nel corso degli anni, il passaggio all’Iri della Motta e dell’Alemagna (i famosi panettoni di stato), dei cantieri navali Piaggio (ex-Tosi), della società Grandi motori navali triestini, della società Teskid (dalla Fiat). Dal canto suo l’Eni dovette acquisire sia la Lanerossi, sia la Lebole, che operavano nel settore tessile e dell’abbigliamento e nulla avevano a che fare con il core business dell’azienda petrolifera. E’ un rischio che si ripropone con la corsa ai salvataggi innescata dalla pandemia e l’uso a pioggia della Cassa depositi e prestiti. Le privatizzazioni avrebbero dovuto invertire questa tendenza, creando “una nuova classe di padroni”, come sostenne Romano Prodi. Sappiamo che non andò così. La maggior parte dei vecchi padroni si è rifugiata nei servizi e nelle società in concessione, passando a riscuotere tariffe e lasciando pezzi importanti dell’industria ai capitalisti stranieri. Cavazzuti ricorda “il gruppo Krupp che ha acquisito Acciai Speciali di Terni; il gruppo Asea Brown Boveri; oppure la General Electric Company con l’acquisto del Nuovo Pignone”.


La società che il London Stock Exchange mette in vendita rispecchia una realtà modesta considerando le potenzialità dell’economia italiana 


 

Con l’affermarsi del mercato unico europeo e il venir meno del protezionismo interno si compie “il regresso del capitalista finanziario italiano”. E’ una marcia inesorabile o un percorso che può essere arrestato se non invertito? Difficile che possa avvenire su base nazionale. Potrebbe essere agevolato se lo stato prendesse il controllo della società che gestisce gli scambi? E’ in ballo anche Euronext, la Borsa europea che non è ancora decollata come avrebbe voluto e la Deutsche Börse verso la quale, però, l’ostilità di pentastellati e leghisti diverrebbe insuperabile. Nel mondo in cui ormai i dati sono la risorsa strategica, e gli scambi avvengono su piattaforme digitali complesse, non si vede come il governo italiano possa diventare un attore strategico a dimensione internazionale. La Cdp sarà anche onnipresente, ma non è onniscente né possiede (non ancora) una dimensione extra domestica. Senza contare i costi, variabile non secondaria per la Cassa che opera con i quattrini dei risparmiatori e dei contribuenti. Per far decollare Borsa italiana bisogna investire, acquisire tecnologie, aprire le gabbie che blindano le imprese e allontanano gli investitori. Ma se invece che aggrovigliarci attorno ai nemici esterni cominciassimo ad ammettere che i peggiori nemici dell’interesse nazionale sono proprio dentro la nazione? Il libro del professor Cavazzuti lo dimostra. Leggere e conoscere per deliberare.

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