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La trappola della Cig

Cari sindacati, prima si rimuove il blocco ai licenziamenti e meglio è

Giampaolo Galli

Con la fine dell’emergenza occorre fare come gli altri paesi europei e tornare alla fisiologia del mercato del lavoro

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Landini da un lato chiede un nuovo “modello di sviluppo” – che non si sa bene cosa voglia dire –, dall’altra chiede assieme agli altri sindacati di congelare l’economia così com’è, ciò che avverrebbe con la proroga del blocco dei licenziamenti. L’interruzione del rapporto di lavoro è sempre un evento traumatico, ma si sono trovati dei modi per renderlo meno traumatico, non per poterne fare a meno. L’economia cresce solo se vi è una continua e rapida ricollocazione di risorse, persone e capitali, da imprese in declino a imprese in espansione. Inoltre, tutti hanno capito ormai che dalla crisi del Covid si esce con cambiamenti rilevanti della struttura produttiva. Non si profila certo “il sol dell’avvenire”, come forse vagheggia Landini, ma certo ci saranno cambiamenti più rilevanti di quelli usuali. Già prima del Covid gli analisti valutavano che la nostra crescita potenziale, ossia sostenibile nel tempo al di là delle oscillazioni congiunturali, fosse vicina allo zero. Arriveremmo sotto allo zero se impedissimo alle imprese di ristrutturarsi, anche riducendo o aumentando il personale. Pensiamo ai treni, al trasporto locale, agli aerei, ai ristoranti, agli alberghi, ai musei, a tutto il grande indotto del turismo e dei viaggi di lavoro che vengono cancellati, nonché a tutte le imprese che forniscono questi settori: è evidente che queste imprese saranno costrette a ridurre il loro fatturato per molto tempo e avranno bisogno di meno personale. Per contro, ci saranno settori in espansione che avranno bisogno di nuovi dipendenti: ad esempio, i due settori su cui puntano gli incentivi europei, il verde e il digitale, la sanità e tanti altri. All’interno di ogni settore ci saranno poi imprese che si espandono e imprese che soffrono: ad esempio, la diffusione, in parte strutturale, del lavoro da casa tende a penalizzare gli esercenti collocati nei centri storici, dove ci sono gli uffici, e favorisce i negozi collocati dove la gente abita.

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Landini da un lato chiede un nuovo “modello di sviluppo” – che non si sa bene cosa voglia dire –, dall’altra chiede assieme agli altri sindacati di congelare l’economia così com’è, ciò che avverrebbe con la proroga del blocco dei licenziamenti. L’interruzione del rapporto di lavoro è sempre un evento traumatico, ma si sono trovati dei modi per renderlo meno traumatico, non per poterne fare a meno. L’economia cresce solo se vi è una continua e rapida ricollocazione di risorse, persone e capitali, da imprese in declino a imprese in espansione. Inoltre, tutti hanno capito ormai che dalla crisi del Covid si esce con cambiamenti rilevanti della struttura produttiva. Non si profila certo “il sol dell’avvenire”, come forse vagheggia Landini, ma certo ci saranno cambiamenti più rilevanti di quelli usuali. Già prima del Covid gli analisti valutavano che la nostra crescita potenziale, ossia sostenibile nel tempo al di là delle oscillazioni congiunturali, fosse vicina allo zero. Arriveremmo sotto allo zero se impedissimo alle imprese di ristrutturarsi, anche riducendo o aumentando il personale. Pensiamo ai treni, al trasporto locale, agli aerei, ai ristoranti, agli alberghi, ai musei, a tutto il grande indotto del turismo e dei viaggi di lavoro che vengono cancellati, nonché a tutte le imprese che forniscono questi settori: è evidente che queste imprese saranno costrette a ridurre il loro fatturato per molto tempo e avranno bisogno di meno personale. Per contro, ci saranno settori in espansione che avranno bisogno di nuovi dipendenti: ad esempio, i due settori su cui puntano gli incentivi europei, il verde e il digitale, la sanità e tanti altri. All’interno di ogni settore ci saranno poi imprese che si espandono e imprese che soffrono: ad esempio, la diffusione, in parte strutturale, del lavoro da casa tende a penalizzare gli esercenti collocati nei centri storici, dove ci sono gli uffici, e favorisce i negozi collocati dove la gente abita.

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Dato che la perdita del lavoro è un evento traumatico, lo stato ha il compito di sostenere le persone e di formarle per i nuovi lavori: questo sono le politiche attive che non fanno né i centri dell’impiego né i famosi navigator. Per fortuna ci sono le imprese private che fanno collocamento di manodopera e molte sono imprese serie e di grande professionalità. Il problema qui è che le persone in cassa integrazione tipicamente accettano dei lavoretti per arrotondare, ma non sono disposte a fare formazione o a cambiare residenza per trovare un nuovo lavoro. E ciò perché la cassa integrazione illude il lavoratore che un posto di lavoro comunque ce l’abbia e che, passato qualche mese di difficoltà, tutto tornerà come prima. Questa illusione oggi si configura come un colossale e intollerabile imbroglio ai danni di milioni di persone in difficoltà.

 

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Dal punto di vista dell’azienda, la cassa integrazione non è equivalente all’interruzione del rapporto di lavoro, perché l’azienda di norma non può assumere nuovi lavoratori prima di avere assorbito i cassintegrati. Quindi l’azienda non riesce ad assumere le persone giuste, ad esempio giovani con capacità informatiche. Ciò genera una distorsione strutturale sul mercato del lavoro: i giovani che hanno le professionalità giuste rimangono disoccupati e le aziende si devono tenere persone che sono in esubero e che non fanno formazione per essere ricollocate. Di fronte a queste rigidità, le imprese per un po’ se la cavano riducendo le assunzioni a tempo determinato o le collaborazioni, il che aggrava il ben noto dualismo del nostro mercato del lavoro; oltre un certo punto non reggono e sono costrette a uscire dal mercato. Alcune ricorrono a escamotage piuttosto costosi, del tipo di chiudere le attività in una città e spostarsi in un’altra, lasciando a casa chi non intende spostarsi.

 

Il risultato di tutto ciò è più disoccupazione, specie per i giovani, e meno crescita delle imprese, specie di quelle più innovative. Vi sono poi gli effetti sulle nuove aziende: non c’è provvedimento del governo che non preveda un qualche incentivo alle startup, specie se fatte da giovani. Ma chi se la sente di aprire una nuova attività in un paese in cui da un giorno all’altro ti viene detto che non puoi più licenziare? Chi si assume un rischio del genere?

 

Il provvedimento aveva una giustificazione durante il lockdown, ma ora l’Italia deve fare come tutti gli altri paesi europei e tornare rapidamente alla fisiologia del mercato del lavoro. Tanto più che, con il passare dei mesi, si aggravano gli squilibri fra domanda e offerta di lavoro e con essi i costi sociali legati all’abolizione del blocco: quanto più si aspetta, quanto più forte sarà il botto perché saranno più numerosi i disoccupati che si creeranno nel momento in cui il blocco verrà rimosso.

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