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aiuti a confronto

Ma il Recovery fund assomiglia davvero al Piano Marshall? Analogie e differenze

Giovanni Federico

Meno sussidi diretti e più controllo politico: i critici di Next generation Eu si straccerebbero i capelli di fronte al programma del Dopoguerra. Ma allora l'Italia seppe sfruttare l'occasione. E oggi? 

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Molte volte, in questi mesi, si è vagheggiato un parallelismo tra il Piano Marshall e il Recovery fund, equiparando il progetto lanciato dagli Stati nel 1947 e quello varato dalla commissione europea guidata da Ursula von der Leyen nelle scorse settimane. Ma sono davvero paragonabili? Quali sono le similitudini tra i due piani? Quali le differenze? Abbiamo chiesto al professor Giovanni Federico, storico dell'economia che insegna all'Università di Pisa, di spiegarcelo. 

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Molte volte, in questi mesi, si è vagheggiato un parallelismo tra il Piano Marshall e il Recovery fund, equiparando il progetto lanciato dagli Stati nel 1947 e quello varato dalla commissione europea guidata da Ursula von der Leyen nelle scorse settimane. Ma sono davvero paragonabili? Quali sono le similitudini tra i due piani? Quali le differenze? Abbiamo chiesto al professor Giovanni Federico, storico dell'economia che insegna all'Università di Pisa, di spiegarcelo. 

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IL CONTESTO STORICO

Nel 1947, l’Italia e l’Europa intera erano ben lungi dall’essersi riprese dalle conseguenze della guerra. Il Prodotto interno lordo per abitante era, in Italia, il 90% di quello pre-bellico (comunque in ripresa dal 57% del 1945), in Francia il 93% ed in Germania addirittura il 49%. Solo nella vittoriosa Gran Bretagna era rimasto lievemente superiore per tutta la durata del conflitto. In Italia, le distruzioni materiali erano molto gravi in alcuni settori, come i trasporti e la siderurgia ed anche nel patrimonio edilizio delle grandi città, ma abbastanza lievi in molti altri, come l’industria tessile. La ripresa dell’attività economia era però frenata soprattutto dalla mancanza di valuta estera per pagare le importazioni di materie prime, cotone, carbone e petrolio, e anche di generi alimentari. La produzione agricola era insufficiente per la mancanza di fertilizzanti e per una serie di cattivi raccolti. Le esportazioni erano limitate dalle carenze della produzione interna e dalla limitata capacità di assorbimento da parte dei paesi europei. Che dovevano fare i conti anche con un altro grave problema: nessuna delle valute era convertibile, e quindi gli scambi erano possibili solo attraverso accordi bilaterali a saldo nullo (tot limoni contro tot carbone). Questa situazione era comune a tutti i paesi europei, Gran Bretagna inclusa, e quindi gli squilibri potevano essere colmato solo con trasferimenti in denaro o in natura.

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Ovviamente gli aiuti dovevano venire dagli Stati Uniti, l’unico paese con la capacità produttiva e le risorse finanziarie necessarie. In realtà, gli Stati Uniti avevano fornito materiale bellico a Gran Bretagna e Unione Sovietica col programma Lend-Lease sin dal 1941 e dal 1943 avevano iniziato a mandare aiuti ai territori europei liberati con vari fondi. Il più importante era l’UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration), fondata nel 1943, divenuta parte dell’ONU nel 1945, e rimasta operativa fino alla fine del 1947. Come evidente dal nome, il suo principale compito era il soccorso alle vittime della guerra in tutto il mondo. Tre quarti dei fondi furono forniti dagli Stati Uniti ed il principale beneficiario fu la Cina, seguita dalla Polonia e dall’Italia, che ricevette 418 milioni di dollari.

 

LA NASCITA DEL PIANO MARSHALL

Nel 1947 il governo americano era decisamente critico nei confronti dell’UNRRA. Pur essendo il principale finanziatore, non aveva un ruolo diretto nella sua gestione e riteneva che l’impostazione prevalentemente umanitaria non rispondesse alle necessità strategiche del paese – ed in particolare alla necessità di rafforzare economicamente e politicamente i paesi europei per contrastare l’espansionismo sovietico. Tale strategia era stata teorizzata nel 1946 da George Frost Kennan, ambasciatore americano a Mosca, e fu esplicitamente invocata dal presidente Harry Truman nel marzo 1947 per giustificare gli aiuti diretti a Grecia e Turchia. L’European Recovery Program fu la logica evoluzione del progetto: un'estensione degli aiuti in favore di tutti i paesi europei. Fu proposto dal segretario di stato George Marshall (da cui il nome comune del piano) in un discorso ad Harvard il 5 giugno 1947 e fu ovviamente accolto entusiasticamente dai paesi europei. Già in luglio dello stesso anno Francia e Gran Bretagna organizzarono un primo incontro a Parigi, invitando i paesi del (futuro) blocco sovietico. Cecoslovacchia e Polonia avrebbero volentieri accettato gli aiuti ma, prevedibilmente, furono costrette a rifiutare per ordine di Stalin.

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I sedici paesi rimasti formularono una serie di richieste di merci americane, per un totale quasi triplo delle previsioni americane. La somma fu poi ridotta con una serie di trattative fra i partecipanti, paesi europei e Stati Uniti. Il piano fu presentato al Congresso nel novembre 1947 e fu approvato nell’aprile 1948, come piano triennale, specificando gli impegni di spesa solo per il primo anno. In realtà il piano durò fino al giugno 1951, per un finanziamento totale di 12.4 miliardi di dollari (circa 120-130 a prezzi attuali). L’Italia ottenne circa 1.35 miliardi dollari, equivalenti al 2% del suo PIL (e circa alla metà dei sussidi ottenuti a vario titolo negli anni 1943-1947). Gli aiuti americani all’Europa continuarono anche dopo la fine del piano ma con importi ridotti e prevalentemente orientati alla cooperazione militare.

 

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COME FUNZIONAVA, DAVVERO, IL PIANO MARSHALL?

Ogni anno, i paesi partecipanti presentavano una lista della spesa, cioè dei beni americani che avrebbero voluto importare, ovviamente secondo le esigenza propria situazione economica. Tutti i paesi avevano bisogno di generi alimentari e di materie prime, ma l’Italia chiese anche carbone e soprattutto macchinari, per circa un quarto delle erogazioni totali. Le varie richieste nazionali venivano presentate ad un organo di coordinamento permanente a Parigi, l’OEEC (Organisation for European Economic Co-operation), fondato nel giugno 1948 che poi nel 1961 sarebbe divenuto l’OECD (Organization for economic cooperation and development, cioè l'Ocse). In quella sede, i fondi venivano allocati ai vari paesi sotto il controllo della missione americana (OSR). Ciascun paese gestiva i finanziamenti ricevuti, anche in questo caso sotto il controllo americano esercitato, in particolare, dall'Economic Cooperation Administration (ECA). I fondi potevano essere sborsati sotto forma di prestiti agevolati a lunga scadenza alle imprese per acquisto di macchinari con garanzia governativa (loans) oppure sussidi in natura (grants). La proporzione fra queste due forme variava da un paese all’altro, con una prevalenza dei sussidi (quasi il 90% nel caso italiano).

 

Le imprese ricevevano direttamente i macchinari e restituivano i prestiti, mentre per i sussidi in natura il percorso era intermediato dai governi nazionali. Questi ultimi vendevano le merci importate alle ditte italiane, accreditando i proventi in un conto in valuta locale, che poteva essere usato per ridurre il debito o per investimenti. La decisione sull’allocazione dei fondi era prevalentemente responsabilità del governo, sempre sotto supervisione della missione americana (i prestiti oltre 1 milione dovevano essere approvati dalla missione OSR a Parigi). L’Italia destinò il corrispettivo sul fondo lire all’agricoltura, per bonifiche e credito (28%), all’acquisto macchinari (23%), ai lavori pubblici (16%) ed al sistema dei trasporti (12%). Fra i settori industriali furono privilegiati la siderurgia, con il rifacimento dell’impianto a ciclo continuo di Cornigliano (Genova), la meccanica e la produzione termoelettrica. Le aziende dell’IRI ottennero circa un quarto delle totale, la FIAT un sesto e l’Edison circa l’8%. Quindi, riassumendo: le due principali novità rispetto ai programmi precedenti erano il controllo americano con una pianificazione a livello europeo ed il maggior peso investimenti rispetto a puri sussidi.

 

IL CONTRIBUTO DEL PIANO MARSHALL ALLA RIPRESA IN EUROPA E IN ITALIA

Quanto il Piano Marshall ha contribuito alla ripresa? Quanto, insomma, l'European Recovery Program ha innescato la cosiddetta golden age – il periodo di grande crescita dell’economia europea fino alla crisi petrolifera del 1973? Le somme ricevute furono, come detto, notevoli ma non enormi. Sicuramente le importazioni e le materie prime furono essenziali per mantenere il tenore di vita della popolazione ad un livello accettabile e far funzionare le industrie. L’importazione di macchinari fu molto importante, e non solo per il ripristino e l’aumento della capacità produttiva: laddove ben sfruttata, fece fare un salto di qualità molto rilevante, essendo le tecnologie americane molto più avanzate di quelle italiane. L’esempio virtuoso è la FIAT. Le cronache raccontano di un funzionario dell'Economic Cooperation Administration che, parlando con Vittorio Valletta, riferendosi alla qualità dei macchinari richiesti, gli chiese: "Volete proprio che vi nutriamo a caviale e champagne?" (e Valletta si dice avesse risposto con un "Non pretenderete che ci accontentiamo di pesce e Coca-Cola"). D’altra parte, solo poche grandi ditte ebbero accesso diretto ai canali di finanziamento ed alcune (come le industrie meccaniche dell’IRI) le sprecarono. Confindustria, nella persona del suo presidente Angelo Costa, espresse molto scetticismo sulla possibilità di adottare tecniche di produzione di massa in un paese povero ed arretrato.

 

Anche se gli effetti di breve periodo sulla produttività sono stati indubbiamente positivi, è difficile attribuire al piano Marshall un ruolo decisivo nella crescita dei vent’anni successivi. In una recentissima rassegna della letteratura sulle cause della crescita europea, l'economista Nicholas Crafts dedica poche righe al piano, sottolineando soprattutto l’importanza della liberalizzazione degli scambi e della creazione di un sistema di pagamenti fra le valute europee (European payment union) nel 1950. Entrambi gli aspetti erano parte della strategia americana complessiva per il rilancio dell’Europa, ma solo indirettamente collegate all'European Recovery Program. In realtà il Piano Marshall fu la carota per costringere gli europei ad avviare un processo di liberalizzazione del commercio che non gradivano. A fortiori, non si possono attribuire direttamente al piano altri fattori di crescita discussi nella letteratura, come la stabilità macroeconomica e lo scambio tacito fra imprenditori e lavoratori (investimenti in cambio di moderazione salariale). Questo discorso ovviamente riguarda gli  effetti economici. E’ possibile sostenere, ma non provare, che in Italia gli aiuti americani già ottenuti, e la minaccia di non riceverne più caso di vittoria del Fronte Popolare, sia stata un elemento essenziale per la vittoria della DC nelle elezioni dell’aprile 1948. Si noti però che al momento delle elezioni, il piano era stato approvato ma non era ancora operativo. 

 

IL CONFRONTO DIRETTO COL RECOVERY FUND

Il piano Marshall è storia. Può l’esperienza essere rilevante per la distribuzione degli aiuti europei nel contesto del Recovery Fund di cui tanto si discute oggi? Entrambi i piani nascono come risposta a catastrofi, anche se il COVID-19 non è minimamente paragonabile alla seconda guerra mondiale in termini di perdite di vite umane. Entrambi hanno un più o meno esplicito fine politico – evitare la vittoria elettorale di avversari politici, i comunisti allora, i sovranisti oggi. I finanziamenti del piano Marshall furono enormemente inferiori in termini assoluti e probabilmente anche in proporzione al pil, anche se quest’ultima affermazione dovrà essere verificata sulla base dei finanziamenti europei effettivamente concessi. La differenza principale è però fra un processo condiviso, al massimo con un paese egemone, ed un piano concepito da un paese solo, con un potere militare, politico e finanziario enormemente superiore a quello di qualsiasi paese percettore di aiuti. Gli Stati Uniti costrinsero i paesi europei ad avviare un processo di integrazione che solo pochi idealisti avrebbero voluto nel 1947, ed esercitarono un controllo diretto sull’utilizzazione delle risorse, anche con la minaccia di sospendere gli aiuti in caso di violazione delle regole.

 

Nel caso dell’Italia, si deve segnalare un’ulteriore potenziale differenza. Il sistema paese, per usare una orrenda espressione di moda, sfruttò bene l’occasione offerta dal Piano Marshall. Il quadro macroeconomico era già stato stabilizzato, con la stretta monetaria del 1947 che aveva bloccato l’inflazione post-bellica. Almeno fino agli inizi del 1950 la politica di bilancio italiana fu molto prudente, tanto da suscitare critiche da parte dei controllori americani. Inoltre l’Italia si pose all’avanguardia europea nella liberalizzazione degli scambi, abolendo tutte le restrizioni quantitative e riducendo i dazi sull’importazione, nonostante i timori di parte consistente degli industriali.  Partecipò attivamente alla fondazione della Comunità Europea per il Carbone e l’Acciaio (Parigi, 1951), che segnò l’inizio del processo di formazione dell’Unione Europea. Infine, almeno ufficialmente, non avvenne nulla di comparabile al teatrino attualmente in corso per il controllo delle risorse fra partiti, correnti e lobbies. Il quadro politico era stabile dopo la schiacciante vittoria della DC nelle elezioni del 1948, mentre la visione politica modernizzatrice era chiara e condivisa. Infine, almeno ufficialmente, i politici non si immischiarono nella gestione, lasciandola ai tecnici. Ovviamente, bisogna sperare che la gestione dei fondi europei sarà altrettanto efficace ed oculata

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