PUBBLICITÁ

Ricchi da morire

Stefano Cingolani

L’elicottero della moneta messo in moto dalla pandemia genera zombi. Imprese e aziende rischiano di affogare in un mare di assistenzialismo

PUBBLICITÁ

“E quante morti ci vorranno prima di sapere che troppe persone sono morte?”

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


“E quante morti ci vorranno prima di sapere che troppe persone sono morte?”

PUBBLICITÁ

Bob Dylan, “Blowin’ In the Wind”

   

Sono zombi, sono morti che camminano: imprese zombi, banche zombi, posti di lavoro zombi. In risposta alla pandemia le banche centrali e i governi hanno generato una quantità di moneta come mai prima d’ora. Carta e debiti sono frutto di una grande illusione: che il denaro sia gratis e i prestiti non vengano mai rimborsati. Il risultato è una ripresa drogata incapace di reggersi sulle proprie gambe. Ha lanciato l’allarme l’Economist con la sua storia di copertina intitolata appunto “Money Free”, hanno rincarato la dose il Financial Times e il Wall Street Journal che ha pubblicato un ampio e dotto articolo di Ruchir Sharma, stratega capo di Morgan Stanley Investment Management, il quale denuncia i pericoli di un’economia dove pullulano cadaveri ambulanti. E’ stata la Banca dei Regolamenti internazionali (la banca delle Banche centrali) a tirare in ballo gli spettri dei riti vudù per designare le compagnie che nell’arco di un triennio non riuscivano a produrre profitti sufficienti a pagare gli interessi. Negli anni Ottanta solo due società su cento quotate a Wall Street potevano essere considerate zombi, prima della pandemia erano già salite al 19 per cento soprattutto in conseguenza dei mega salvataggi realizzati dopo la crisi del 2009-2010. Oggi saranno almeno il doppio volendo essere prudenti. Non solo: la Federal Reserve ha comprato consistenti quantità di azioni persino di colossi come Apple, Walmart, AT&T, Disney, Nike and Berkshire Hathaway, che in teoria sono in grado di trovare abbastanza denaro sul mercato privato invece di ricorrere alla banca centrale. Ciò non avviene solo negli Stati Uniti: si pensi ai gruppi automobilistici che chiedono prestiti garantiti dallo stato come Fiat Chrysler. Le aziende di tutte le taglie sopravvissute solo grazie ai soldi dei contribuenti si stanno moltiplicando in Europa, Cina e naturalmente in Giappone dove il fenomeno si è manifestato in modo più evidente. Quanto all’Italia, siamo oltre la soglia di rischio.

PUBBLICITÁ

  


Le aziende di tutte le taglie sopravvissute solo grazie ai soldi dei contribuenti si stanno moltiplicando in Europa, Cina e Giappone. Quale impresa è più zombi dell’Alitalia e certo non da adesso? L’assistenzialismo che soffoca la concorrenza (e l’economia)


  

PUBBLICITÁ

Quale impresa è più zombi dell’Alitalia e certo non da adesso? Ben prima che arrivasse il Covid-19 si è spenta l’economia di un paese in cui vengono trasferite risorse che non ci sono, dove la distribuzione prevale sulla produzione, l’assistenzialismo soffoca la concorrenza, il sussidio vince sul lavoro, la produttività s’appiattisce, la crescita si ferma, e i redditi pro capite scendono; così questa generazione e ancor più la prossima rischiano di vivere peggio delle generazioni precedenti, nonostante tutta la moneta gettata dall’elicottero. Che il mal sottile dal quale è minata l’Italia si chiami produttività (del lavoro e dell’insieme dei fattori) Pierluigi Ciocca lo aveva messo in luce già nel suo libro “Ricchi per sempre?” (Bollati Boringhieri, 2007). Nell’ultima edizione, uscita un mese fa, ha pubblicato altre 30 pagine che prendono in esame gli ultimi vent’anni in cui quella tabe è diventata una piaga purulenta. L’economista, cresciuto in Banca d’Italia dove è diventato vicedirettore generale dal 1995 al 2006, raccoglie i dati e smentisce il piagnisteo sull’austerità: “Solo dal 2012 l’indebitamento netto è sceso al di sotto del fatidico tetto del 3 per cento del pil. La spesa saliva dal 46 per cento del 2000 al 50 per cento del 2009-2015 per flettere leggermente al 48 per cento nel 2018. Ancor più negativo era che montasse la spesa al netto degli investimenti e degli interessi sul debito: dal 36 per cento del 2000 al 46 per cento del 2018. Seppur inasprite – dal 44 al 46 per cento del pil – la pressione tributaria e le altre entrate non bastavano ad annullare i disavanzi”. Ecco come è andato peggiorando il debito dello stato, dopo la breve e modesta riduzione a cavallo del nuovo secolo. Nel frattempo “gli investimenti pubblici, soprattutto quelli di competenza degli enti locali, ma anche quelli decisi dal centro flettevano di un terzo, da 54 miliardi (3,4 per cento del pil) nel 2009 al 37 miliardi (2,1 per cento) nel 2018)”. Non solo troppa spesa, dunque, ma spesa sbagliata, perché “agli investimenti pubblici che secondo le stime della Banca d’Italia hanno un acceleratore dell’1,5 per cento (ogni euro mette in moto un euro e mezzo) si sono preferiti i trasferimenti e gli sgravi fiscali”.

PUBBLICITÁ

  

E’ il primo grande scoglio che oggi blocca la ripresa. Eppure, secondo Ciocca, “i margini per azzerare il disavanzo di bilancio, fermare il debito, sostituire la spesa corrente con spesa in conto capitale erano disponibili. Non sono stati utilizzati. Ha prevalso l’intento, di fiato corto, di non perdere consenso tra gli elettori”. Senza peraltro raggiungere nemmeno questo risultato vista la instabilità e la breve vita dei governi che si sono succeduti, uno ogni due anni dalla caduta di Silvio Berlusconi nel 2011. In molti hanno partecipato alla spartizione della torta, anche gli imprenditori piccoli, medi e grandi i quali “continuavano a chiedere soldi pubblici, a confidare nei bassi salari, nella bassa concorrenza”. Tuttavia, lo spazio di manovra per sistemare i conti dello stato si può ancora trovare nei 200 miliardi di euro destinati a elargizioni assistenziali di vario genere molte delle quali sotto la voce oscura di “altre spese”, ad essi si aggiungono i mitici 100 o 150 miliardi di evasione fiscale, difficili da recuperare se si resta dentro lo schema della rincorsa tra guardie e ladri, invece di rivedere profondamente il sistema fiscale.

PUBBLICITÁ

  

L’Italia, insomma, ha applicato da tempo il paradigma della moneta facile. Tutto è stato monetizzato, persino le riforme strutturali. Prendiamo il mercato del lavoro e il paradosso dell’articolo 18. La liberalizzazione decisa dal governo Renzi ha in effetti favorito l’occupazione: oltre un milione di posti di lavoro in più tra marzo 2014 e settembre 2018. Il guaio è che nel frattempo non è aumentata la produttività, mentre il passo successivo con il governo giallo verde è stato spezzare il legame tra reddito e lavoro. Il reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia dei Cinque stelle, e la pensione anticipata a quota 100 tra anni e contributi versati, bandiera leghista, hanno distribuito moneta prima e dopo l’impiego, riducendo ancor più la platea di chi paga e aumentando quella di chi riceve senza aver pagato del tutto o comunque non a sufficienza.

  

L’Italia, “dove fioriscono i limoni”, ha fatto dunque da battistrada al “cambiamento profondo in atto nella economia mondiale”? Un cambiamento “di quelli che accadono solo una volta in una generazione”, come scrive l’Economist. Il primo è avvenuto negli anni Settanta quando “l’austero monetarismo di Milton Friedman” ha rimpiazzato il “keynesismo neocorporativo”, il secondo negli anni Novanta quando è stata data la loro indipendenza alle banche centrali hanno, adesso la pandemia ha aperto una nuova era la cui pietra miliare è l’indebitamento senza limiti da parte dei governi: il Fondo monetario internazionale calcola che i paesi ricchi quest’anno raggiungeranno un deficit medio del 17 per cento per finanziarie 4 mila 200 miliardi di dollari destinati a spesa pubblica e riduzioni fiscali. Il tutto si basa su una inversione temporale che proietta il passato nel futuro: i governi credono di poter prendere a prestito il denaro a buon mercato perché gli ultimi quattro decenni di espansione monetaria e mercantile hanno portato i tassi di interesse vicino a zero. La globalizzazione, grazie alla competizione dei paesi in via di sviluppo, ha ridotto i costi salariali incorporati nelle merci, l’innovazione tecnologica e la rivoluzione digitale hanno abbattuto i prezzi di molti beni e servizi (si pensi alle telecomunicazioni), mentre la liberalizzazione faceva scendere gran parte delle tariffe (basti citare i viaggi aerei e le compagnie low cost). Questo scenario rischia di essere sconvolto dall’impatto combinato della pandemia e del protezionismo. La moneta facile diventa così il velo di Maya che secondo Schopenhauer nasconde l’amara verità: “Alimenta la crescita di imprese gigantesche a spese delle startup – scrive Sharma – con i salvataggi pubblici tiene in vita aziende altamente indebitate a scapito di quelle innovative. Tutto questo conduce a un abbassamento della produttività che è il primo agente del rallentamento dell’economia e della riduzione della torta per tutti”.

  


Si parla di riforme strutturali, ma siamo solo alla lista della spesa. L’Italia è un caso tipico. Gli esempi di due settori: Sanità e Giustizia. Dopo la crisi finanziaria del 2008, le famiglie e le imprese hanno sentito la pressione per ridurre il loro indebitamento. I governi no


  

Dopo la crisi finanziaria del 2008, diventata poi crisi globale, le famiglie e le imprese hanno sentito la pressione per ridurre il loro indebitamento. I governi no. Così i debiti totali sono saliti a tre volte il prodotto lordo mondiale (esattamente il 320 per cento), un massimo storico all’interno del quale la quota dei governi è aumentata molto di più. Secondo Sharma che cita diversi studi tra i quali uno della Banca centrale europea, la crescita del peso dello stato in 108 paesi analizzati durante gli ultimi quarant’anni ha prodotto una riduzione della produttività e dello sviluppo. I neo statalisti dovrebbero rifletterci su, almeno quelli in buona fede, non accecati dal fanatismo ideologico. E’ vero che oggi ci sono ancora le condizioni per indebitarsi a buon mercato e ciò vale sia per i privati sia per gli stati, ed è altrettanto vero che non si vedono segnali di una rinascita dell’inflazione (purtroppo, perché almeno in piccole dosi, diciamo fino al 3 per cento, l’aumento dei prezzi farebbe da lubrificante per la macchina produttiva). Tuttavia un effetto perverso è già evidente: i mercati sono sovreccitati dall’abbondanza di moneta, troppa e troppo conveniente, se lo dice un guru di Wall Street c’è da crederci.

  

La crisi è ancora durissima, nel secondo trimestre il pil degli Stati Uniti ha perso il 9,5 per cento, quello della Germania il 10 per cento, altri come l’Italia hanno fatto peggio. Eppure il mondo si muove: l’osservatorio del Financial Times su una serie di indicatori nei dieci paesi più rilevanti mostra che lentamente, a balzelloni, tutti hanno ricominciato a crescere. Ci vorrà tempo per recuperare, anche se le curve mostrano tutte una impennata che fa pensare a un andamento a U o a V, dipende dai comparti dell’economia. La spesa per consumi a luglio è ripresa nettamente, negli Usa ha superato il livello pre crisi, lo ha quasi raggiunto in Germania, in Francia e anche in Italia. Il turismo ha recuperato quasi completamente in Francia resta indietro in Italia, ma la curva punta decisamente in alto. Preoccupa la Cina dove l’attività economica resta inferiore del 20 per cento rispetto al luglio dello scorso anno. Dunque prudenza, la congiuntura è mobile e bizzarra, non si può dire però che la risposta delle banche centrali e dei governi sia volata via nel vento. Sharma non nega l’immediato effetto positivo dei salvataggi pubblici, ma sottolinea che “il capitalismo ha urgentemente bisogno di un approccio focalizzato all’intervento del governo in modo che riduca le sofferenze dei disastri, ma lasci le economie libere di crescere per proprio conto una volta che la crisi sia passata”. Ecco il punto. Il vero limite del dibattito pubblico è che resta incollato al breve periodo. E’ vero, si parla di riforme strutturali, però siamo solo alla lista della spesa. L’Italia ancora una volta è un caso tipico. Prendiamo due temi davvero decisivi, la salute e la giustizia.

  

La Sanità dovrebbe essere considerata a tutti gli effetti un comparto che non assorbe soltanto il denaro raccolto con le imposte o a debito, ma produce ricchezza. La sua importanza vitale impone che venga trattata alla stregua di comparti come l’energia o la difesa, prevedendo anche scorte strategiche per far fronte alle emergenze. Le componenti della filiera sanitaria in Italia (governo centrale, regioni, industria farmaceutica, università, laboratori di ricerca, farmacie) si muovono con una logica perversa: ciascun per sé e spesa pubblica per tutti. Il piano sanitario nazionale non può più essere concepito di fatto come il suk dove le regioni e il Tesoro si spartiscono ogni anno le spoglie. I grandi ospedali, i centri di eccellenza possono diventare vere e proprie piattaforme sanitarie in grado di collegarsi con tutti gli altri soggetti per coordinare e selezionare gli interventi (dalla gestione degli ammalati a seconda della diagnosi all’accesso ai farmaci e al materiale). Uno sforzo del genere non può essere caricato soltanto sulle spalle del bilancio pubblico; occorre creare un vero e proprio mercato finanziario che indirizzi investimenti privati verso la sanità. Potrebbe essere sostenuto con incentivi di mercato ed entro certi limiti garantito dal governo. Per fare un esempio si possono creare dei Pirs, piani individuali di risparmio sanitari. La discussione sugli strumenti è senza dubbio complessa, tuttavia occorre aprire una riflessione di fondo, con un approccio nuovo, produttivo non distributivo, industriale non solo sociale.

  

Quanto alla giustizia, “l’ordinamento giuridico italiano è storicamente intriso di pregiudizi valoriali i quali collidono con la scelta che il paese ha fatto di affidarsi a una economia di mercato capitalista”, scrive Ciocca. Le contraddizioni che sono all’interno della stessa Carta costituzionale (sulla proprietà privata, l’utilità sociale, la capacità contributiva, il diritto alla riservatezza, tanto per fare alcuni esempi), non sono mai state corrette e hanno alimentato la piaga di processi infiniti e oscuri trasformando l’Italia in un paese dove regna l’incertezza del diritto, dove l’opacità copre il concorso di colpa tra stato e privati. Casi recenti come l’Ilva o le Autostrade ne sono la più lampante dimostrazione. Non solo moneta, dunque, non solo congiuntura. Ciocca cita la “poderosa trilogia di Deirdre McCloskey” intitolata “Le virtù borghesi. Etica per una età del commercio”, per sottolineare quanto le idee siano fondamentali per lo sviluppo di un paese più delle risorse materiali. E ricorda che “nel primo ventennio del Duemila l’economia arretrando e ristagnando ha minato il corpo sociale nel profondo, così che s’è innescato un circolo vizioso”. La pandemia non è un’invenzione, ha diffuso morte e terrore, nel frattempo ha messo in moto una reazione per molti versi inattesa nella sfera pubblica e in quella privata. C’è la consapevolezza che la crisi possa diventare l’occasione per cambiare, è il momento di cogliere questo stato d’animo e rigettare gli zombi tra le ombre del passato.

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ