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Vaccini contro i nemici del mercato

Claudio Cerasa

Perché la capacità di coltivare la cultura del rischio passa dal pazzo incrocio tra lo stato e la borsa italiana

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La Borsa? E’ la vita! C’è una notizia apparentemente noiosa che nella giornata di ieri ha animato per qualche ora il dibattito politico italiano. La notizia ha a che fare con la conferma ufficiale data ieri mattina dal London Stock Exchange che in occasione della presentazione dei conti trimestrali ha confermato ciò che era già noto da tempo: l’avvio di discussioni esplorative che potrebbero tradursi in una vendita dell’intera quota del gruppo Borsa italiana che la Borsa inglese ha acquisito tredici anni fa. La mossa potrebbe essere necessaria, per il London Stock Exchange, per ottenere l’approvazione da parte dell’Antitrust europeo all’acquisizione di un fornitore globale di dati e infrastrutture del mercato finanziario chiamato Refinitiv (valore dell’operazione: 27 miliardi).

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La Borsa? E’ la vita! C’è una notizia apparentemente noiosa che nella giornata di ieri ha animato per qualche ora il dibattito politico italiano. La notizia ha a che fare con la conferma ufficiale data ieri mattina dal London Stock Exchange che in occasione della presentazione dei conti trimestrali ha confermato ciò che era già noto da tempo: l’avvio di discussioni esplorative che potrebbero tradursi in una vendita dell’intera quota del gruppo Borsa italiana che la Borsa inglese ha acquisito tredici anni fa. La mossa potrebbe essere necessaria, per il London Stock Exchange, per ottenere l’approvazione da parte dell’Antitrust europeo all’acquisizione di un fornitore globale di dati e infrastrutture del mercato finanziario chiamato Refinitiv (valore dell’operazione: 27 miliardi).

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Ciò che vale la pena approfondire di questa storia non ha a che fare con le implicazioni finanziarie che deriveranno dalle strategie della Borsa di Londra ma ha a che fare con un tema cruciale e potenzialmente da sballo legato a quello che a quanto risulta al Foglio potrebbe essere il destino della Borsa italiana: essere acquisita dalla solita e ormai onnipresente Cassa depositi e prestiti. Apparentemente, la nazionalizzazione della Borsa italiana, con un eventuale ingresso di una serie di investitori italiani guidati da Cdp, potrebbe apparire, a uno sguardo libertario, come l’ennesimo e inaccettabile e vergognoso tentativo da parte dello stato di allungare i suoi tentacoli sull’economia nazionale. Se si prova però a osservare con uno sguardo più attento e meno ideologico la questione si capirà con semplicità che la possibile statalizzazione della Borsa italiana non sarebbe altro che la cifra perfetta di un nuovo mondo all’interno del quale stato e mercato possono coesistere in una forma diversa rispetto al passato e all’interno del quale il mercato per lo stato non diventa un nemico contro cui combattere ma diventa un alleato con cui costruire la ripresa di un paese.

  

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Sergio Mattarella, in uno splendido discorso pronunciato a metà giugno di fronte ai poco resilienti vertici della Consob, ha provato in qualche modo a declinare il concetto ricordando che “il ruolo del mercato è centrale nel processo di ripresa del paese”. E in questa prospettiva, specie considerando l’approccio non sempre simpatetico con il mondo del mercato da parte degli azionisti di questa maggioranza di governo, per non parlare di alcuni suoi oppositori, l’idea che la culla degli speculatori, si fa per dire, possa diventare qualcosa di simile a un soggetto cruciale per l’interesse nazionale assume una dimensione stimolante. A condizione, naturalmente, che questa idea venga accompagnata da una tripla consapevolezza: la capacità dell’Italia di saper coltivare una sana cultura del rischio (il 40 per cento degli italiani non sa valutare le proprie conoscenze finanziarie), l’impegno da parte della nostra classe dirigente a rimuovere gli ostacoli che rendono per molte aziende poco attrattiva la quotazione in Borsa (rispetto al pil, la capitalizzazione della nostra Borsa vale circa la metà di quella tedesca e di quelle della zona euro, un terzo di quella francese e un quarto di quella inglese) e la capacità da parte dello stato e del governo di non avallare in modo demagogico la teoria del piccolo è bello (i grandi player della Borsa italiana corrispondono alle grandi aziende pubbliche del nostro paese e non ci vuole molto a capire, come raccontato due anni fa da Mario Nava ai tempi della presidenza della Consob, che un mercato con poche “big companies” risulta meno attraente sia per le società di grandi dimensioni sia per gli investitori istituzionali).

 

Uno stato che sogna di far crescere nuovamente il sistema produttivo italiano è uno stato che trasforma il mercato in un soggetto cruciale per la tutela del nostro interesse nazionale. E uno stato che sceglie di comprare la struttura che governa la sua Borsa, soprattutto se questo accade in una stagione in cui il nazionalismo anti mercatista continua a parlare a una fetta non irrilevante del paese, rappresenta un’opportunità più che uno scandalo. Specie poi se si dovesse realizzare quello che forse non si realizzerà ma che è legittimo sperare: una Cdp che compra la Borsa, che la arricchisce e che crea occasioni per le grandi e piccole aziende italiane per crescere e non aver più bisogno un domani dell’aiuto dello stato. E per un’economia come quella italiana, mai come oggi la Borsa rappresenta la vita.

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