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editoriali

I giusti paletti per una buona ripresa

Redazione

La discontinuità economica che serve dall’èra giallvoerde per invertire la rotta

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Nel secondo trimestre il pil italiano è in calo del 12,4 per cento; in termini tendenziali del 17,3. Il dato comunicato dall’Istat segue il -5,3 dei primi tre mesi, che abbracciava la prima fase di lockdown, ed è definito “storico”. Non che gli altri paesi siano messi meglio. Il pil della Francia è caduto, sempre nel secondo trimestre e su base annua, del 13,8 per cento; quello della Spagna del 22,1; la Germania del 10,1. Negli Stati Uniti crollo record del 32,9 per cento. I primati negativi accomunano il mondo, attesi ma non in queste proporzioni. Già il 3 luglio l’Istat aveva raffreddato le aspettative di ripresa, indicando come il coronavirus abbia colpito il paese già “in una fase caratterizzata da una prolungata debolezza del ciclo, con il pil cresciuto nel 2019 di appena lo 0,3 per cento”. A differenza del resto d’Europa, l’Italia non era uscita appieno dalle due precedenti crisi, del 2008 e poi del 2011. Un barlume di ripresa lo si era visto dal 2015 al 2017, poi dal 2018 di nuovo declino. Non può sfuggire il fatto che la fase migliore coincida con le pur timide riforme del mercato del Lavoro (Jobs Act), decontribuzione, taglio di Ires e Irap. Nonostante gli errori il Pd di allora di Renzi e Gentiloni ha portato a casa un aumento di fiducia di consumatori e imprese, il balzo dell’export e un più timido aumento della produzione industriale.

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Nel secondo trimestre il pil italiano è in calo del 12,4 per cento; in termini tendenziali del 17,3. Il dato comunicato dall’Istat segue il -5,3 dei primi tre mesi, che abbracciava la prima fase di lockdown, ed è definito “storico”. Non che gli altri paesi siano messi meglio. Il pil della Francia è caduto, sempre nel secondo trimestre e su base annua, del 13,8 per cento; quello della Spagna del 22,1; la Germania del 10,1. Negli Stati Uniti crollo record del 32,9 per cento. I primati negativi accomunano il mondo, attesi ma non in queste proporzioni. Già il 3 luglio l’Istat aveva raffreddato le aspettative di ripresa, indicando come il coronavirus abbia colpito il paese già “in una fase caratterizzata da una prolungata debolezza del ciclo, con il pil cresciuto nel 2019 di appena lo 0,3 per cento”. A differenza del resto d’Europa, l’Italia non era uscita appieno dalle due precedenti crisi, del 2008 e poi del 2011. Un barlume di ripresa lo si era visto dal 2015 al 2017, poi dal 2018 di nuovo declino. Non può sfuggire il fatto che la fase migliore coincida con le pur timide riforme del mercato del Lavoro (Jobs Act), decontribuzione, taglio di Ires e Irap. Nonostante gli errori il Pd di allora di Renzi e Gentiloni ha portato a casa un aumento di fiducia di consumatori e imprese, il balzo dell’export e un più timido aumento della produzione industriale.

 

Le contrazioni del 2018 e 2019, con il governo M5s-Lega, non sono del tutto attribuibili alla sbornia populista gialloverde; certo è che lo smantellamento delle riforme del Lavoro (Reddito di cittadinanza e decreto “Dignità”) e della previdenza (quota 100), e il contestuale attacco all’Europa con conseguente aumento dello spread hanno dato una mano. Il nuovo governo ha cambiato registro sull’Europa, ma ha fatto poco o nulla sul resto. Non c’è la discontinuità necessaria, soprattutto in una fase di crisi acuta come questa. Ancora peggio l’agenda autarchica dell’opposizione a trazione leghista. Il mondo, probabilmente, si riprenderà. La stessa Francia segnala una ripresa delle costruzioni e dei consumi. L’Italia, as usual, seguirà a distanza, più lentamente e appesantita da un debito ancora più imponente.

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