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La rete unica è una scelta tecnica, non politica. Gamberale ci spiega perché

Stefano Cingolani

Il ruolo di Cdp, l'occasione di creare una prospettiva industriale per Tim e l'insensatezza di avere due operatori. Intervista all'ex capo di Telecom 

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La rete unica si deve fare, Vito Gamberale ne è persuaso e non condivide l’opinione espressa da Franco Bernabè nell’intervista al Foglio. Non si tratta di una scelta politica, anzi: “Non bisogna buttarla in polemica, ma sulla rete è bene che parlino prima di tutto i tecnici competenti, come è stato strutturalmente dimostrato dalla recente chiara intervista dell’ing. Massimo Sarmi; sarebbe opportuna maggiore prudenza da parte degli amministratori per tutte le stagioni, specie se devono contraddire anni di proprie affermazioni contrarie”, spiega. La sua convinzione si radica anche sul passato di una Italia dove le reti spezzettate (Italcable per i collegamenti esteri, le Poste per le trasmissioni interne e la Sip per la distribuzione) avevano mostrato tutta la loro inefficienza, frenando lo sviluppo delle Tlc del Paese. E poi, sulla duplicazione della rete, c’è l’esempio degli altri paesi, come Australia e Nuova Zelanda, dove è ben noto che non ha funzionato, producendo dissesti finanziari e disservizi”. “La doppia rete – insiste – non ce l’ha nessuno né in Europa né in alcun paese asiatico avanzato. E non per caso. Negli Stati Uniti tre operatori si sono divisi gli stati, ma ci sono 300 milioni di abitanti, quindi ogni società serve, in media, 100 milioni di utenti”.

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La rete unica si deve fare, Vito Gamberale ne è persuaso e non condivide l’opinione espressa da Franco Bernabè nell’intervista al Foglio. Non si tratta di una scelta politica, anzi: “Non bisogna buttarla in polemica, ma sulla rete è bene che parlino prima di tutto i tecnici competenti, come è stato strutturalmente dimostrato dalla recente chiara intervista dell’ing. Massimo Sarmi; sarebbe opportuna maggiore prudenza da parte degli amministratori per tutte le stagioni, specie se devono contraddire anni di proprie affermazioni contrarie”, spiega. La sua convinzione si radica anche sul passato di una Italia dove le reti spezzettate (Italcable per i collegamenti esteri, le Poste per le trasmissioni interne e la Sip per la distribuzione) avevano mostrato tutta la loro inefficienza, frenando lo sviluppo delle Tlc del Paese. E poi, sulla duplicazione della rete, c’è l’esempio degli altri paesi, come Australia e Nuova Zelanda, dove è ben noto che non ha funzionato, producendo dissesti finanziari e disservizi”. “La doppia rete – insiste – non ce l’ha nessuno né in Europa né in alcun paese asiatico avanzato. E non per caso. Negli Stati Uniti tre operatori si sono divisi gli stati, ma ci sono 300 milioni di abitanti, quindi ogni società serve, in media, 100 milioni di utenti”.

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L’ingegner Gamberale ha guidato la Telecom quando ancora si chiamava Sip, è stato il primo amministratore delegato dell’operatore mobile Tim, il promotore del fondo F2i nato nel 2007 con la Cdp, le Casse Previdenziali e le fondazioni bancarie, e oggi è presidente e cofondatore di Iter Capital Partners che si occupa di investimenti infrastrutturali. Ricorda con amarezza quello che definisce “un vulnus” tecnologico e strutturale della richiamata separazioni delle reti, sanato soltanto tra il 1993 e il 1994 con la formazione di Telecom Italia per la telefonia fissa e Tim per quella mobile. “Nacquero due campioni non solo nazionali, ma mondiali. E senza debiti. L’obiettivo, già allora, era creare una rete a banda larga in tutto il paese, ma questo progetto fu atrofizzato con una privatizzazione sbagliata e con amministratori incapaci che si sono poi avvicendati, per circa due decenni, alla guida di Telecom”.

    

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Si chiamava Socrate il piano lanciato da Ernesto Pascale per portare ovunque la fibra ottica. Gamberale ricorda che si deve proprio a Pascale la riunificazione delle reti. Il manager, passato alla guida della Stet, la finanziaria dell’Iri per le telecomunicazioni, voleva una privatizzazione sul modello dell’Eni e dell’Enel con lo stato azionista sia pur in minoranza, ma tutt’altro che passivo o puramente finanziario. Questa linea venne sconfitta e nel 1997 prevalse la scelta di rivolgersi alla Fiat: ne scaturì quello che fu chiamato il “nocciolino duro”. Da quel momento in poi, Telecom fu utilizzata soprattutto per operazioni finanziarie, sottolinea Gamberale: “Gli amministratori e gli azionisti hanno confuso l’elevato margine che le società di servizi consentono per il pozzo dal quale attingere dividendi immediati, mentre i margini servono innanzitutto per gli investimenti, perché proprio le società di servizi richiedono miglioramenti senza sosta e sono in continua evoluzione”. Negli ultimi tempi c’è stata una svolta positiva e Tim è guidata da un manager “esperto e capace come Luigi Gubitosi e da un presidente dal grande profilo istituzionale. Non solo, anche l’assetto azionario appare più stabile grazie all’atteggiamento attendista di Vivendi e a una significativa riduzione della quota del fondo Elliott”.

     

La Cassa depositi e prestiti, seconda azionista, finora è stata silenziosa, “ma spero che cominci a parlare e la sua presenza prenda corpo, perché considero essenziale la sua partecipazione, come avviene del resto in Germania e Francia”. La Cdp sarebbe essenziale anche nella società unica della rete? “Oggi è presente in Tim con il 10% e possiede il 50% di Open Fiber; potrebbe quindi razionalizzare le sue partecipazioni, assumendo il ruolo di riferimento, quindi di stimolo e garanzia, con un peso importante nella governance. Avendo ritrovato amministratori capaci, è giusto che l’azionariato di Tim trovi adesso un nocciolo duro e stabile”. La società della rete deve stare dentro Tim o fuori, cioè la rete va scorporata e collocata in una società autonoma? Qui secondo Gamberale va fatto un calcolo delle convenienze: “Lo scorporo consentirebbe, per Tim, la valorizzazione di una quota di minoranza, riducendo anche il peso dei debiti. Il conferimento di Open Fiber rafforzerebbe patrimonialmente Tim dando maggiore peso, come detto, a un soggetto istituzionale come Cdp. Sono certo che a quel punto finirebbero i giochi attorno alla più profanata delle grandi aziende italiane. E porrebbe la parola fine a tutte le estemporanee fantasie di spezzettamenti e duplicazioni”.

    

A parte il passato più lontano, l’esperienza di Open Fiber dimostra che due reti non hanno senso, insiste Gamberale e ricorda che nel 2012 quando era a capo del fondo infrastrutturale F2i, fu proprio Bernabè a proporgli di comprare insieme Metroweb, la rete milanese in fibra ottica che poi sarà la base per la stessa Open Fiber nata soprattutto per pungolare Telecom, “un segnale che Matteo Renzi volle dare per scuotere il gruppo delle telecomunicazioni”. Oggi anche l’amministratore delegato dell’Enel, Francesco Starace che per Gamberale è uno dei migliori manager italiani, con i suoi comprensibili segnali, sembra d’accordo nell’aderire al progetto della rete unica: “Ne fa una questione di valore, ma sa bene che proseguire su una duplicazione sarebbe un non ottimale impiego di risorse”.

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Non funziona nemmeno il modello Terna del quale parlano in molti: “Sulla rete delle telecomunicazioni non passano elettroni, ma intelligenza che deve sempre essere aggiornata”, sottolinea Gamberale. Bisogna, dunque, partire dal cabinet dove arriva la rete di Tim e dare vita a una società nella quale il principale gruppo italiano abbia un ruolo preminente. Ci sono molti problemi da risolvere: la governance, la trasparenza, l’accesso e l’apertura agli altri operatori, il rispetto della concorrenza. E non è poco. Tutte questioni che vanno affrontate, ma secondo Gamberale si possono risolvere se c’è un progetto chiaro che impegni anche il governo, per dare a Tim una visione strategica, un azionariato solido con una prospettiva industriale e non finanziaria, consolidare un management competente, finalmente presente. “La società è stata una palestra per operazioni di ogni genere. E’ stata a lungo l’applicazione dell’originario motto del Movimento 5 Stelle secondo il quale uno vale uno, il competente e l’incompetente pari sono. E’ arrivato il momento di una svolta che metta al centro la logica dell’industria e gli interessi del paese”.

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