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Stato statalizzatore

Luciano Capone

Aspi, Ilva, Alitalia, Tim… ora Embraco? Le nazionalizzazioni sono la regola, non più l’eccezione. Paletti per il futuro

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Roma. “Sulle accuse di statalismo, penso che lo stato debba avere un ruolo di accompagnamento, non di protagonismo”, dice al Corriere il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli, che sta cercando di dare una svolta confindustriale al Mise targato Pomigliano. E in questa fase di crisi e cambiamento “è necessario che lo stato accompagni la transizione con tutti gli strumenti che ha a disposizione. Questo non vuol dire nazionalizzare, ma creare le condizioni per gli investimenti”, precisa il ministro. Eppure, pare che nazionalizzare sia diventata la norma. 

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Roma. “Sulle accuse di statalismo, penso che lo stato debba avere un ruolo di accompagnamento, non di protagonismo”, dice al Corriere il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli, che sta cercando di dare una svolta confindustriale al Mise targato Pomigliano. E in questa fase di crisi e cambiamento “è necessario che lo stato accompagni la transizione con tutti gli strumenti che ha a disposizione. Questo non vuol dire nazionalizzare, ma creare le condizioni per gli investimenti”, precisa il ministro. Eppure, pare che nazionalizzare sia diventata la norma. 

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“Il caso Autostrade – dice Patuanelli – è una questione diversa”. In effetti l’opzione iniziale era la revoca della concessione e la messa a gara, più in linea con le norme di uno stato di diritto, e invece si è proceduto con la nazionalizzazione e l’esclusione dell’azionista di controllo. Ma questo è un caso particolare, figlio di concessioni squilibrate e di una tragedia come il crollo del ponte Morandi. C’è poi la vicenda Ilva, dove il progetto di “decarbonizzazione”, “acciaio verde” e a idrogeno è ancora fumoso, ma di certo – come ha annunciato lo stesso Patuanelli – ci sarà l’ingresso dello stato, probabilmente attraverso Invitalia, che è poi un ritorno dopo anni di pessima gestione statale commissariale. Un altro caso eccezionale è Alitalia, che è stata rinazionalizzata con una dote di oltre 3 miliardi, dopo anni di amministrazione straordinaria e centinaia di milioni di euro di prestiti-ponte svaniti. Patuanelli punta a “riequilibrare la struttura dei costi rispetto ai ricavi”, che vuol dire molti voli in meno ma senza alcun esubero. Una soluzione, secondo Patuanelli, è una riforma del settore “per garantire ad Alitalia lo stesso trattamento riservato ad altre compagnie, come previsto dal ddl della senatrice Lupo”. Posto che nessuna compagnia aerea ha un trattamento “riservato” (e quindi privilegiato) e che la senatrice Lupo è una ex hostess e sindacalista Alitalia, la norma non sarebbe altro che una restrizione della concorrenza – a danno dei viaggiatori – per rendere i costi di Alitalia più sostenibili. E’ evidentemente questo intervento legislativo il “riequilibrio” della struttura costi-ricavi di cui parla Patuanelli, che mostra quali siano i problemi quando lo stato è sia arbitro sia giocatore. Sul tavolo c’è poi la nazionalizzazione di Tim, sempre attraverso Cdp, che è ovviamente un altro caso eccezionale.

  

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Stiamo parlando di grandi aziende nazionali, in crisi o in buona salute, ma sono comunque considerate “strategiche”. Non mancano però altre piccole eccezioni, come ad esempio la nazionalizzazione prêt-à-porter di Corneliani, la casa di moda in crisi da diversi anni, salvata da un ingresso statale nel capitale da 10 milioni provenienti da un fondo per i “marchi storici”.

  

Un’altra possibile prossima eccezione è la ex Embraco, rilevata dalla Ventures, e appena dichiarata fallita dal tribunale di Torino. La soluzione indicata è di nuovo la nazionalizzazione attraverso Invitalia, invocata anche dall’opposizione, ad esempio da Carlo Calenda, che aveva gestito da ministro la crisi Embraco. Ora è evidente che l’eccezione stia diventando la regola, che la nazionalizzazione è la prima risposta che la politica propone, e non si comprende con quali argomenti potrà essere negata per risolvere altre situazioni critiche se finora è stata indiscriminata.

  

In ogni caso, prima di procedere con lo “stato imprenditore” sarebbe il caso di farsi qualche domanda su come ha gestito queste stesse imprese. Perché, come dicevamo, Ilva e Alitalia sono state negli ultimi anni già amministrate dallo stato e i risultati sono deludenti, sia per le perdite sia per la scarsa trasparenza. Anche la crisi Embraco, per cui si invoca come soluzione l’intervento di Invitalia, è stata gestita e accompagnata in questi anni proprio da Invitalia. E’ stata l’agenzia guidata da Domenico Arcuri a impegnarsi nella “reindustrializzazione” dello stabilimento, a cercare gli investitori e a seguire piani industriali improvvisati: in pochi anni si è passati dalle bici elettriche, ai robot per pulire i pannelli solari, fino alle batterie elettriche, per arrivare al fallimento. Qualcosa di analogo è avvenuto nella riconversione di Termini Imerese, dove i vertici della Blutec, l’impresa individuata da Invitalia per il rilancio, sono stati arrestati per bancarotta e per aver distratto 16 milioni di euro erogati da Invitalia. Perché stavolta il maggiore protagonismo dello stato dovrebbe funzionare? Cosa è cambiato?

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