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Sussidiati e contenti

Con il Recovery fund l’Italia riceve dall'Ue più di quanto dà. C’è poco da festeggiare

Luciano Capone

Perché non essere più un contributore netto non è una buona notizia. Il passaggio tra i sussidiati d'Europa è un chiaro segno del declino

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Roma. “L’Italia è un contributore netto in Europa!”. Per anni i leader politici, di quasi tutti gli schieramenti, hanno recriminato – o spesso urlato – questa condizione, come se l’Italia stesse subendo un torto o pagando un prezzo troppo alto per stare nel club Ue. E, allo stesso modo, dopo l’accordo in Consiglio europeo sul Recovery fund in tanti hanno accolto con soddisfazione, quasi con esultanza, il passaggio dall’altro lato della barricata: “L’Italia da contributore netto diventa beneficiario netto!”. E in effetti le cose stanno in questo modo. Il nostro paese ha sempre versato a Bruxelles più di quanto abbia ricevuto, nel corso degli ultimi anni il saldo è stato negativo con una media di circa 4 miliardi l’anno. Ora tutto si è ribaltato. Anche senza considerare i prestiti a tasso agevolato ma solo i cosiddetti finanziamenti a fondo perduto, da Bruxelles arriveranno a Roma 81 miliardi da spendere nei prossimi 5 anni (circa 16 miliardi l’anno). Una quota che è il doppio rispetto a quella che l’Italia, in base al suo peso, dovrà versare nel corso di trent’anni per ripagare il debito. In pratica, pur senza considerare il vantaggio finanziario dovuto ai tassi del nuovo debito comune europeo, l’Italia riceverà un trasferimento netto da circa 40 miliardi.

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Roma. “L’Italia è un contributore netto in Europa!”. Per anni i leader politici, di quasi tutti gli schieramenti, hanno recriminato – o spesso urlato – questa condizione, come se l’Italia stesse subendo un torto o pagando un prezzo troppo alto per stare nel club Ue. E, allo stesso modo, dopo l’accordo in Consiglio europeo sul Recovery fund in tanti hanno accolto con soddisfazione, quasi con esultanza, il passaggio dall’altro lato della barricata: “L’Italia da contributore netto diventa beneficiario netto!”. E in effetti le cose stanno in questo modo. Il nostro paese ha sempre versato a Bruxelles più di quanto abbia ricevuto, nel corso degli ultimi anni il saldo è stato negativo con una media di circa 4 miliardi l’anno. Ora tutto si è ribaltato. Anche senza considerare i prestiti a tasso agevolato ma solo i cosiddetti finanziamenti a fondo perduto, da Bruxelles arriveranno a Roma 81 miliardi da spendere nei prossimi 5 anni (circa 16 miliardi l’anno). Una quota che è il doppio rispetto a quella che l’Italia, in base al suo peso, dovrà versare nel corso di trent’anni per ripagare il debito. In pratica, pur senza considerare il vantaggio finanziario dovuto ai tassi del nuovo debito comune europeo, l’Italia riceverà un trasferimento netto da circa 40 miliardi.

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Ma l’essere passati nel club dei sussidiati è una buona notizia e un successo politico-diplomatico italiano? Oppure è la semplice constatazione, da parte degli altri stati membri dell’Unione, del lento e costante declino economico del nostro paese aggravato dalla mazzata del Covid che ha colpito noi più degli altri? Purtroppo, la risposta è la seconda. E non c’è nulla da festeggiare. 

  

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Negli ultimi anni l’Italia ha perso terreno in senso assoluto, a causa della doppia recessione diventata tripla con l’emergenza Covid, che ci ha rigettati ancora indietro rispetto ai livelli pre crisi. Ma soprattutto ha perso terreno rispetto agli altri paesi europei. La fotografia dell’impoverimento relativo è visibile nelle statistiche di Eurostat che misurano il pil pro capite a parità di potere d’acquisto dei paesi europei. Nel 2008, prima della crisi finanziaria innescata dal fallimento di Lehman Brothers, fatto 100 il pil pro capite dell’Ue a 27 paesi quello italiano era pari a 108. Nel 2019, undici anni dopo, lo stesso valore è sceso di 13 punti, a 95, ben al di sotto della media europea.

 

Anche dopo la Brexit, nella ridefinizione dei contributi per il prossimo bilancio da sborsare per compensare l’uscita del Regno Unito, l’Italia era uno di quei paesi che avrebbero avuto un aggravio di spese del tutto marginale. Ma, anche in questo caso, non perché ci fosse stata una particolare abilità nelle trattative politiche. Semplicemente perché il paese è in declino e quindi relativamente più povero (o meno ricco). E questo vuol dire, dall’altro lato, anche un sempre minore peso economico e politico all’interno delle istituzioni europee. L’Italia si sta rattrappendo. E questa progressiva contrazione ha subìto un’ulteriore accelerazione con l’epidemia Covid, che ha prodotto un crollo del pil superiore a tutti gli altri paesi membri, che secondo le stime sarà del 10 per cento, e a cui seguirà una ripresa più lenta rispetto agli altri.

 

Il cambio del segno nel nostro saldo al bilancio europeo è la semplice certificazione di questa inesorabile dinamica. Non ci dovrebbe essere quindi nessuna soddisfazione nel passaggio al girone dei sussidiati, dove ci sono i paesi dell’est le cui economie stanno invece progressivamente convergendo verso il resto d’Europa. Ma tanta preoccupazione. Questa grossa mole di trasferimenti e finanziamenti che arriveranno da Bruxelles è una grande occasione per rimettere in carreggiata un paese che ha una traiettoria divergente rispetto al centro dell’Europa. E non sarà un’operazione semplice, visto che l’Italia non ha dato di certo una dimostrazione di efficienza nell’utilizzo dei fondi strutturali se le regioni del Mezzogiorno hanno ancora un pil pro capite che è il 60 per cento di quello europeo.

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L’ambizione di un paese fondatore come l’Italia dovrebbe essere quella di tornare nel gruppo di testa, tra i contributori netti dell’Unione. Invece sembra quasi che il paese e la sua classe politica aspirino a essere sussidiati dagli stati del nord, in maniera strutturale e perpetua, come una specie di Mezzogiorno europeo. Sarebbe un’aspirazione mediocre e, soprattutto, non è detto che verrebbe assecondata.

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