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I soldi Ue per far crescere l’Italia, non i sondaggi. Viva il partito del pil!

Claudio Cerasa

Ricerca di visione del governo, diffidenze della maggioranza e incapacità dell’opposizione, incertezze tra gli industriali. Cinque ragioni per cui resta inascoltato il cuore pulsante del paese

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Il weekend di passione vissuto al Consiglio europeo ha avuto l’effetto di ricordare al nostro paese tutte le ragioni per cui gli stati del nord Europa nutrono ancora oggi diffidenza nei confronti dell’Italia. E in estrema sintesi si può dire che la radice della diffidenza ha più o meno queste motivazioni: il problema non sono i soldi che verranno dati a paesi già molto indebitati, ma il problema è se i soldi che arriveranno dall’Europa verranno usati per migliorare i sondaggi dei partiti al governo o per migliorare gli indicatori economici di quel determinato paese. Sintesi ancora più estrema: un conto è usare i miliardi del Recovery fund per finanziare nuove Quota 100, un altro è usare quei miliardi per costruire riforme strutturali.

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Il weekend di passione vissuto al Consiglio europeo ha avuto l’effetto di ricordare al nostro paese tutte le ragioni per cui gli stati del nord Europa nutrono ancora oggi diffidenza nei confronti dell’Italia. E in estrema sintesi si può dire che la radice della diffidenza ha più o meno queste motivazioni: il problema non sono i soldi che verranno dati a paesi già molto indebitati, ma il problema è se i soldi che arriveranno dall’Europa verranno usati per migliorare i sondaggi dei partiti al governo o per migliorare gli indicatori economici di quel determinato paese. Sintesi ancora più estrema: un conto è usare i miliardi del Recovery fund per finanziare nuove Quota 100, un altro è usare quei miliardi per costruire riforme strutturali.

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Per quanto possa essere rude, specie in tempi di pandemia, fare questo ragionamento è complicato non intravedere qualche elemento di buon senso presente nelle posizioni dei paesi del nord Europa. Ma ciò che la classe dirigente italiana avrebbe il dovere di comprendere prima che sia troppo tardi è che, per quanto possa apparire bizzarro, il nord che condivide questa linea pragmatica non è solo quello che si trova nel nord dell’Europa: è anche quello che si trova nel nord dell’Italia. E per ragioni che vale forse la pena approfondire, oggi a chiedere al governo di far propria questa linea pragmatica (prendere i soldi per far crescere l’Italia e non per far crescere i sondaggi) si trovano, a vario titolo, tutti coloro che un tempo avremmo definito come gli stakeholders del partito del pil. Un partito che per l’Italia è importante più che mai. Ma un partito che mai come oggi, per almeno cinque ragioni, soffre per non essere degnamente rappresentato a livello nazionale.

 

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La prima ragione ha a che fare con la direzione del governo. E in una stagione in cui l’Italia avrebbe quanto mai bisogno di investire per dare ossigeno al ceto produttivo del paese spicca in modo preoccupante l’assenza di visione del governo su quattro temi decisivi per il futuro: una pubblica amministrazione più efficiente, un mercato del lavoro più produttivo, una giustizia meno ostaggio della dittatura delle procure, un sistema fiscale più all’altezza delle sfide del presente.

  

La seconda e la terza ragione hanno a che fare invece con la natura stessa degli azionisti di maggioranza del governo. E qui il problema è sotto gli occhi di tutti: il partito che esprime la maggioranza relativa del Parlamento, il M5s, riesce a fare gli interessi del ceto produttivo del paese solo quando riesce a smentire le sue promesse elettorali, il che purtroppo non riesce sempre; mentre il partito diventato per forza di cose guida del governo, ovvero il Pd, mostra una sempre maggiore difficoltà a considerare come prioritarie le istanze politiche rappresentate dal nord del paese (il responsabile economico del Pd, Emanuele Felice, sostiene che Stefano Bonaccini, Giorgio Gori e Giuseppe Sala abbiano idee di destra).

  

La quarta ragione che permette di illuminare la sofferenza del partito del pil ha a che fare con l’incapacità da parte di Matteo Salvini (e della sua Lega che ancora oggi è anti euro, anti Europa, anti Mes, anti Recovery fund e che continua a muoversi spinta dall’unico desiderio di inglobare ciò che resta del grillismo) di porsi sulla scena politica come un leader capace di interpretare le esigenze del ceto produttivo. E non è certo un caso che in questo momento il più popolare tra i leader della Lega, Luca Zaia, sia anche il più distante dalla leadership incarnata da Matteo Salvini.

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La quinta ragione che ci permette di concludere il nostro ragionamento ha a che fare invece con la sorprendente difficoltà incontrata dal bravo capo degli industriali italiani, Carlo Bonomi, a rappresentare con forza il partito del pil. Il ceto produttivo italiano non apprezza questo governo ma sa che l’alternativa sarebbe infinitamente peggiore. E per questo sono molti gli imprenditori che anche al nord (chiedere per esempio ad Alberto Bombassei) sognerebbero di avere una Confindustria capace di uscire dal così detto approccio sindacale (lista della spesa) e capace di adottare un approccio diverso per cavalcare le trasformazioni, guidare i cambiamenti e dare il buon esempio offrendo un messaggio rivoluzionario: non solo cosa può fare il governo per noi, ma cosa possiamo fare noi per cambiare l’Italia.

  

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E sia che si parli di nord Europa sia che si parli di nord Italia il problema resta lo stesso: il problema non sono i soldi che verranno dati a paesi già molto indebitati, come il nostro, ma il problema è se i soldi che arriveranno dall’Europa verranno usati per migliorare i consensi dei partiti al governo o per migliorare gli indicatori economici di quel determinato paese. E per migliorare gli indicatori economici più che concentrarsi su ciò che dicono i sondaggi tocca tornare a concentrarsi su ciò che ogni giorno prova a sussurrare al paese il cuore pulsante dell’Italia: il partito del pil.

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