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La differenza tra divano e smart working. La rivoluzione che manca al lavoro pubblico

Claudio Cerasa

La vitalità del settore privato sarà cruciale per determinare la ripresa a V del paese. Ma mai come in questa fase lo stato e la politica avrebbero il dovere di creare una forma di concorrenza virtuosa tra pubblico e privato. La prova dello smart working

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C’è una particolare lettera dell’alfabeto che da qualche tempo a questa parte i principali osservatori economici scrutano con attenzione. Quella lettera, cruciale, corrisponde alla lettera “V” ed è una lettera da cui passa semplicemente il futuro del paese. Fino a qualche tempo fa, dicevi “V” e pensavi al vaffa di Grillo, oggi passato alla fase “esticazzi” come magistralmente segnalato sabato scorso dal nostro Makkox, o al massimo potevi pensare alla anonima “V”, nel senso di vendetta. Oggi la “V” indica invece qualcosa di diverso ed è lì a inquadrare un sogno che per la prima volta è comparso venerdì scorso sulle tabelle statistiche del nostro paese, quando l’Istat ha sfornato i dati relativi alla produzione industriale di maggio. La “V”, in questo caso, indica il rimbalzo e il rimbalzo, nel mese di maggio, c’è stato: produzione industriale a più 42,1 per cento, rispetto ad aprile, e rimbalzo superiore alle previsioni, considerando che la stima prevista era del più 15 per cento. Essere ottimisti, in una fase in cui il pil italiano calerà più del 10 per cento, non è semplice. Ma il dato sulla produzione industriale ci permette di illuminare un tema che merita di essere messo a fuoco per capire o meglio per ricordare che con tutta la buona volontà dello stato la ripresa del nostro paese passa dal privato, passa delle industrie, passa dalle imprese, passa dalla capacità della nostra classe dirigente di valorizzare e rafforzare quella fetta vitale del paese capace di contribuire con le sue esportazioni di beni e servizi a circa il 32 per cento del pil italiano – e capace di produrre ogni anno un saldo positivo della bilancia commerciale (44 miliardi) che vale più della mastodontica linea di credito prevista dal Mes per le spese sanitarie (36 miliardi).

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C’è una particolare lettera dell’alfabeto che da qualche tempo a questa parte i principali osservatori economici scrutano con attenzione. Quella lettera, cruciale, corrisponde alla lettera “V” ed è una lettera da cui passa semplicemente il futuro del paese. Fino a qualche tempo fa, dicevi “V” e pensavi al vaffa di Grillo, oggi passato alla fase “esticazzi” come magistralmente segnalato sabato scorso dal nostro Makkox, o al massimo potevi pensare alla anonima “V”, nel senso di vendetta. Oggi la “V” indica invece qualcosa di diverso ed è lì a inquadrare un sogno che per la prima volta è comparso venerdì scorso sulle tabelle statistiche del nostro paese, quando l’Istat ha sfornato i dati relativi alla produzione industriale di maggio. La “V”, in questo caso, indica il rimbalzo e il rimbalzo, nel mese di maggio, c’è stato: produzione industriale a più 42,1 per cento, rispetto ad aprile, e rimbalzo superiore alle previsioni, considerando che la stima prevista era del più 15 per cento. Essere ottimisti, in una fase in cui il pil italiano calerà più del 10 per cento, non è semplice. Ma il dato sulla produzione industriale ci permette di illuminare un tema che merita di essere messo a fuoco per capire o meglio per ricordare che con tutta la buona volontà dello stato la ripresa del nostro paese passa dal privato, passa delle industrie, passa dalle imprese, passa dalla capacità della nostra classe dirigente di valorizzare e rafforzare quella fetta vitale del paese capace di contribuire con le sue esportazioni di beni e servizi a circa il 32 per cento del pil italiano – e capace di produrre ogni anno un saldo positivo della bilancia commerciale (44 miliardi) che vale più della mastodontica linea di credito prevista dal Mes per le spese sanitarie (36 miliardi).

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La vitalità di quella fetta di paese trainata dal mondo privato sarà cruciale per determinare la ripresa a V. Ma mai come in questa fase uno stato e una politica con la testa sulle spalle avrebbero il dovere di accettare la sfida della nuova stagione creando una forma di concorrenza virtuosa tra il settore privato e quello pubblico. I mesi del lockdown sono stati per il settore pubblico un incredibile stress test e solo chi vuole osservare il mondo coprendo con fette di prosciutto le lenti dei propri occhiali può negare di essersi ritrovato spesso di fronte a fenomeni come quelli descritti giorni fa da Pietro Ichino, che in un’intervista rilasciata alla Nuova Sardegna ha offerto spunti di riflessione preziosi purtroppo lasciati cadere nel vuoto. “Sono contrario, e con me, credo, la grande maggioranza degli italiani, a chiamare smart working il letargo che ha caratterizzato gran parte delle amministrazioni pubbliche nei mesi scorsi. Ci è stato detto che quasi tutti i dipendenti pubblici erano impegnati nel lavoro da casa, ma tutti abbiamo avuto sotto gli occhi le amministrazioni inaccessibili e le pratiche rinviate sine die in tutti i settori, da quello tributario alla Motorizzazione civile, alle sovrintendenze, agli ispettorati, agli uffici giudiziari, alla polizia urbana, ai musei. Come facevano a “lavorare da remoto”, per esempio, i vigili urbani, i custodi dei musei, gli operatori ecologici, gli uscieri? Anche nella scuola tutti abbiamo constatato che una parte soltanto degli insegnanti si è attivata per la didattica a distanza e il personale tecnico e amministrativo è per lo più rimasto a casa senza alcun compito da svolgere”.

 

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Apparentemente, le parole di Pietro Ichino potrebbero essere lette come l’ennesima e giusta strigliata contro i fannulloni di stato. Ma in realtà le parole del giuslavorista indicano un problema ben più importante della lotta contro gli sfaticati del pubblico. E se vogliamo indicano una grande sfida: far sì che la stagione del lavoro agile coincida con una grande svolta del settore pubblico e far sì che ai dipendenti statali sia data la possibilità di competere in efficienza con i dipendenti del settore privato, mettendo i quattro milioni di italiani che lavorano nel pubblico (compresi i dipendenti delle partecipate) nelle condizioni di poter essere non un ostacolo per la ripresa del paese ma più semplicemente un motore ulteriore.

 

Per farlo bisognerebbe avere il coraggio di non nascondere il fatto che, come segnalato recentemente dal Fondo monetario internazionale, l’inefficienza della Pubblica amministrazione costa oltre 30 miliardi di euro all’anno di mancata crescita e che se la nostra amministrazione pubblica avesse in tutta Italia la stessa buona qualità nella scuola, nei trasporti, nella sanità, nella giustizia che ha nei migliori territori, il pil nazionale aumenterebbe di 2 punti (ovvero di oltre 30 miliardi di euro) all’anno. Per farlo occorrerebbe non nascondere casi come quello siciliano, dove durante il lockdown a 1.600 dipendenti regionali è stato consentito di rimanere a casa in “esenzione di lavoro”, il che significa che sono stati mesi senza lavorare pur ricevendo regolarmente lo stipendio. Per farlo occorrerebbe non reiterare comportamenti ridicoli come quelli registrati durante la pandemia, quando ai dipendenti in lockdown è stato concesso di trasformare il lavoro agile in un rinvio agile delle pratiche da espletare (il primo decreto emanato dal governo, quello così detto “Credito”, ha sospeso i termini dei procedimenti amministrativi, prorogando al 15 aprile tutto ciò che si sarebbe dovuto adempiere entro il 15 marzo. Un mese dopo, in un altro decreto del governo, quello così detto “Liquidità”, il termine del 15 aprile 2020, previsto dai commi 1 e 5 dell’art. 103 del dl 17 marzo 2020 n.18, è stato prorogato al 15 maggio 2020. Di fatto, per decreto del presidente del Consiglio, all’amministrazione pubblica è stato concesso, salvo casi di eroismo individuale, di non fare quello che è stato invece richiesto a tutto il resto del paese: provare cioè a lavorare da casa tentando di trasformare la quarantena in una esperienza smart). Per farlo bisognerebbe avere il coraggio di dire che sarebbe un errore se il governo facesse quello che è stato anticipato in questi giorni dai giornali, ovvero cancellare, dal dl Semplificazioni, le norme che impongono alla Pa tempi certi (per esempio la riduzione dei termini da 60 a 40 giorni per i pareri delle soprintendenze). Per farlo bisognerebbe ammettere che è uno scandalo il fatto che l’attività di dirigenti e dipendenti pubblici non sia misurata da alcun indice di produttività e che per questo è del tutto indifferente se alcuni di essi raggiungono risultati buoni e se altri invece non raggiungono alcun risultato. Per farlo infine bisognerebbe che tutti i politici che in questi mesi hanno invitato i lavoratori italiani a uscire dalla grotta dello smart working avessero il coraggio di fare un passo in avanti ammettendo che il problema dello smart working non riguarda il mondo privato ma riguarda prima di tutto il mondo pubblico.

 

Perché di fronte a una rivoluzione che costringe il lavoratore a essere più produttivo, il mercato del lavoro meno produttivo (quello pubblico) tende a trasformare il lavoro da casa in un lavoro dal divano (non è per tutti così, naturalmente, e se vogliamo essere sinceri la stragrande maggioranza degli insegnanti italiani, per esempio, è riuscita a trasformare lo smart working in un valore aggiunto della didattica italiana, dimostrando ancora una volta di essere una categoria di lavoratori decisamente migliore rispetto ai propri sindacati). Non c’è rivoluzione dell’Italia senza una rivoluzione del pubblico e senza la presa di coscienza che lo smart working per il pubblico impiego può avere un senso solo a condizione che non diventi una sorta di nuova frontiera delle conservative battaglie sindacali.

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Sempre Pietro Ichino, in un suo intervento su Lavoce.info, ha notato che nei giorni scorsi la commissione Bilancio della Camera ha approvato un emendamento che obbliga le amministrazioni pubbliche a programmare il lavoro agile almeno per il 50 per cento “delle attività che possono essere svolte con questa modalità” entro la fine di quest’anno, per il 60 per cento in seguito. Non più, dunque, nota Ichino, lo smart work che nasce dalla verifica sul campo della propria utilità e fattibilità, incentivando la qualità del lavoro delle persone interessate e la capacità della struttura aziendale di ripensarsi e attrezzarsi sul piano tecnico, organizzativo e culturale. Ma un qualcosa di diverso: “Un beneficio – per non dire privilegio – attribuito burocraticamente a una percentuale predeterminata del personale. Non la possibilità del lavoro da remoto dimostrata sul campo dalle persone più capaci di responsabilizzarsi per il conseguimento di obiettivi precisi, ma il diritto a non recarsi in ufficio conquistato attraverso graduatorie costruite sul numero di figli piccoli o di parenti disabili a carico, quando non su certificazioni dei medici curanti”. Se l’Italia vuole avere un futuro a V oltre che puntare su ciò che funziona già ha il dovere di puntare su una nuova e ambiziosa scommessa: infilare il lavoro pubblico nel grande acceleratore dell’efficienza del futuro. Se non ora, quando?

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