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Sveglia: l’alternativa al debito è possibile

Pasquale Lucio Scandizzo e Giovanni Tria

Lo stato raccolga soldi con uno strumento nuovo: la partecipazione azionaria

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L’esplosione del debito pubblico come conseguenza del collasso delle economie determinato dal Covid-19 è un fenomeno mondiale e pone in prospettiva problemi diffusi di sostenibilità e di rischio sistemico globale. La monetizzazione di una parte di questo debito, anche attraverso l’intervento del Fmi e delle banche centrali, potrebbe contribuire ad alleviare la minaccia di instabilità, ma da sola non può essere una panacea. Il tema si pone in modo più acuto per i paesi dove il debito sovrano è già alto e quindi l’emissione di debito aggiuntivo pone il problema di limitarne il costo immediato sia in termini di interessi sia di accoglienza da parte del mercato e di programmazione di un piano di rientro prospettico. In questo quadro è stata di recente riproposta l’idea di ricorrere a emissioni di titoli irredimibili per far fronte a programmi eccezionali di spesa in una situazione paragonata a quella di una guerra. Per alcuni (Soros, Tabellini e Giavazzi, e altri) dovrebbe essere l’Europa a emettere questi titoli per sostenere i programmi di spesa europei e di sostegno ai singoli paesi membri, per altri l’emissione di questi titoli dovrebbe servire a sostituire gli aiuti europei con un ricorso patriottico al risparmio nazionale (Monti, Bazoli, Tremonti, Savona).

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L’esplosione del debito pubblico come conseguenza del collasso delle economie determinato dal Covid-19 è un fenomeno mondiale e pone in prospettiva problemi diffusi di sostenibilità e di rischio sistemico globale. La monetizzazione di una parte di questo debito, anche attraverso l’intervento del Fmi e delle banche centrali, potrebbe contribuire ad alleviare la minaccia di instabilità, ma da sola non può essere una panacea. Il tema si pone in modo più acuto per i paesi dove il debito sovrano è già alto e quindi l’emissione di debito aggiuntivo pone il problema di limitarne il costo immediato sia in termini di interessi sia di accoglienza da parte del mercato e di programmazione di un piano di rientro prospettico. In questo quadro è stata di recente riproposta l’idea di ricorrere a emissioni di titoli irredimibili per far fronte a programmi eccezionali di spesa in una situazione paragonata a quella di una guerra. Per alcuni (Soros, Tabellini e Giavazzi, e altri) dovrebbe essere l’Europa a emettere questi titoli per sostenere i programmi di spesa europei e di sostegno ai singoli paesi membri, per altri l’emissione di questi titoli dovrebbe servire a sostituire gli aiuti europei con un ricorso patriottico al risparmio nazionale (Monti, Bazoli, Tremonti, Savona).

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L’attrattiva per i governi di questi titoli sta nel fatto che tecnicamente la loro emissione non comporta la contabilizzazione di un debito, non dovendo essere restituita la somma sottoscritta, ma solo l’assunzione dell’onere annuale degli interessi. La differenza con i titoli a lunghissima scadenza, come i titoli trentennali o a scadenza di cinquant’anni o oltre, è che questi ultimi rappresentano in ogni caso un debito contabile perché vi è un obbligo di restituzione alla scadenza dell’ammontare sottoscritto. Tuttavia, i titoli irredimibili condividono con i titoli a lunghissima scadenza un rischio elevato per i sottoscrittori, soprattutto retail, rischio che dovrebbe essere compensato offrendo loro un interesse più elevato del normale. Il rischio è determinato dal fatto che i sottoscrittori acquistano un diritto a ricevere una cedola fissa per un tempo illimitato il cui valore capitale, importante in caso di vendita del titolo, è sensibile ai mutamenti dei tassi di interesse di mercato e quindi al tasso di sconto al quale viene nel tempo attualizzato il flusso futuro di cedole. Inoltre un titolo perpetuo, non indicizzato all’inflazione, di per sé si espone a una perdita di valore prospettica anche se oggi non si vede alta inflazione a breve. In conclusione, è altamente incerta la possibilità di un’accoglienza calorosa di questi titoli, almeno da parte di risparmiatori non istituzionali.

 

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E’ forse invece arrivato il momento di cambiare il modello stesso di finanziamento della spesa pubblica, basato esclusivamente sul debito, ricorrendo allo strumento complementare, di uso corrente nel settore privato, della partecipazione azionaria. In realtà in tutto il mondo vi è una lunga esperienza di partecipazione dello stato nel capitale delle imprese e si è parlato molto, recentemente, della possibilità che tale esperienza venga ripetuta ed estesa, seppur temporaneamente, anche a piccole e medie imprese in difficoltà. Poco si è detto, invece, della possibilità che i cittadini entrino in partecipazione con lo stato per finanziarne le attività.

 

Dal punto di vista teorico, dei titoli di stato irredimibili con cedole indicizzate al pil nominale, invece che a tassi di rendimento fissi, aumenterebbero l’efficienza dell’economia. Essi infatti estenderebbero la diversificazione possibile dei portafogli degli investitori rispetto a rischi e opportunità oggi non coperti dai titoli disponibili. Essi consentirebbero, inoltre, di condividere i frutti della crescita economica abbassando in modo anticiclico il costo delle attività pubbliche, riallineando continuamente i consumi con i risultati economici del paese, la pressione fiscale e il costo del debito. Pur se qualificabili tecnicamente come strumenti di debito “ibridi”, titoli siffatti rappresenterebbero di fatto un investimento di tipo azionario legato alla crescita del paese con una condivisione dei rischi tra stato e sottoscrittori.

 

Nonostante ci sia una vasta letteratura al riguardo (vedi le proposte del premio Nobel Robert Shiller e altri), non bisogna confondere questi titoli, che realizzano forme di partecipazione al pil, con titoli di debito indicizzati al pil. Questi ultimi sono ancora debiti i cui interessi oscillano a seconda della performance di crescita del pil realizzata in un determinato anno dal paese in questione e debbono essere rimborsati alla scadenza. I titoli di partecipazione al pil invece non sarebbero debiti, ma alla stessa guisa delle azioni privilegiate per le imprese private, solo diritti residui a percepire un dividendo garantito fissato a un indice predeterminato del tasso di crescita del pil nominale. Per questa ragione, essi non dovrebbero essere rimborsati alla scadenza, ma sarebbero quotati sul mercato secondario e, data la garanzia dello stato, godrebbero di una elevata liquidità. Le loro quotazioni dipenderebbero non solo dal tasso di crescita dell’anno in corso, ma anche dalle aspettative sulle prospettive di performance di lungo termine dello stato rispetto al deficit primario, al debito e, in ultima analisi, allo sviluppo economico del paese. Il dividendo iniziale che lo stato potrebbe offrire all’investitore può essere anche basso perché le aspettative di medio lungo periodo sono di un aumento di questo dividendo (e quindi del valore attualizzato nel caso lo volesse mettere sul mercato) e questo è un vantaggio per il governo con problemi di cassa immediati ma con basso rischio futuro. Questi dividendi rappresenterebbero sempre una quota fissa del pil, e quindi del gettito fiscale, e per un paese come l’Italia non è ipotizzabile la difficoltà di pagare i dividendi mentre verrebbe a cadere il rischio di rimborso del principale in una fase di sfiducia del mercato, pur conservando lo stato il diritto di ricomprarli.

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I vantaggi per l’investitore privato che, ad esempio, vuole garantirsi un reddito nel periodo di pensionamento sono importanti. Un titolo perpetuo indicizzato al pil nominale non solo coprirebbe il dividendo atteso dal rischio di inflazione ma garantirebbe il livello relativo di reddito, cioè lo standard di vita relativo alla comunità di appartenenza, perché questo reddito si rivaluterebbe in base anche alla crescita del pil reale. Per ciò che riguarda il grado di liquidità connesso al rischio di oscillazione del valore capitale di questi titoli, che dipende in gran parte dalle oscillazioni del tasso a cui nelle varie fasi deve essere calcolato il valore di mercato del titolo, il rischio viene compensato dalla valutazione del titolo in base alle aspettative di continua rivalutazione nel medio-lungo periodo e dalla diversificazione del portafoglio degli investitori.

 

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Il funzionamento dei titoli di partecipazione risulta ancora più chiaro se visto dalla prospettiva del conto patrimoniale consolidato del governo, una realtà economica importante, tipicamente trascurata dalla programmazione contabile dei bilanci pubblici. I titoli perpetui indicizzati al pil proposti come titoli di partecipazione darebbero la possibilità di ridurre il debito pubblico di una quantità equivalente al valore attuale atteso dei dividendi da pagare nel futuro. Nelle attuali circostanze favorevoli di bassi tassi di interesse prevalenti, questa riduzione potrebbe essere spinta in modo da accelerare questa riduzione verso il punto in cui il costo medio del debito pubblico fosse al di sotto del tasso di crescita per raggiungere la fatidica soglia di sostenibilità. Il ricorso a questi titoli di partecipazione potrebbe essere ben accolto sia da investitori istituzionali come diversificazione di portafoglio sia da singoli risparmiatori a cui si chiederebbe di “credere” nelle potenzialità positive del proprio paese e non di assumersi l’onere di un suo risanamento, come sarebbe implicito nella sottoscrizione di titoli perpetui non indicizzati.

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