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Parlano i manager dei grandi gruppi

C'era una volta il capannone. Inchiesta sull'industria che verrà

Stefano Cingolani

E’ in corso una nuova Rivoluzione industriale e digitale, ma la pandemia ha solo accelerato un processo già avviato. Tra ecommerce e smart working le imprese si sono mosse prima dei governi cambiando i modelli. Un girotondo di opinioni

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Nell’inverno del nostro isolamento la pandemia ha scatenato una tempesta turbinosa che sta trasformando anche l’economia. La prima rivoluzione industriale impiegò circa mezzo secolo per uscire dal bozzolo. Era il luglio del 1733 quando John Kay a Colchester, nell’Essex, cominciò a produrre la spoletta volante. A settembre i tessitori della contea inviarono una petizione al re Giorgio II affinché il sovrano mettesse fine a quella innovazione che distruggeva il lavoro. Ben 31 anni dopo arrivò la Jenny di James Hargreaves e cambiò la filatura a domicilio. Poi sorsero gli opifici sul bordo dei fiumi perché l’energia proveniva ancora dal moto delle acque. Alla catena di montaggio occorse almeno un ventennio per cambiare la produzione e ci fu di mezzo la Grande guerra (la prima Ford T vide la luce nel 1913). La fabbrica robotizzata ha atteso oltre un decennio prima di rimpiazzare “l’operaio massa”. Lo smart working, invece, ha portato il lavoro fuori dai capannoni e dagli uffici in meno di tre mesi. Ma che mesi. La Deloitte, prima società mondiale di consulenza, ha pubblicato un paio di ampi studi per spiegare come cambiano le imprese nella produzione e nei servizi. Partendo da qui abbiamo chiesto ad alcuni manager italiani di primo piano come stanno vivendo questo sconvolgimento; ciascuno a suo modo delinea i tratti di un’altra rivoluzione industriale, la quinta (dipende dai punti di partenza), o forse la quarta bis perché le innovazioni introdotte erano maturate prima che il Grande Confinamento le diffondesse con una velocità inaspettata.

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Nell’inverno del nostro isolamento la pandemia ha scatenato una tempesta turbinosa che sta trasformando anche l’economia. La prima rivoluzione industriale impiegò circa mezzo secolo per uscire dal bozzolo. Era il luglio del 1733 quando John Kay a Colchester, nell’Essex, cominciò a produrre la spoletta volante. A settembre i tessitori della contea inviarono una petizione al re Giorgio II affinché il sovrano mettesse fine a quella innovazione che distruggeva il lavoro. Ben 31 anni dopo arrivò la Jenny di James Hargreaves e cambiò la filatura a domicilio. Poi sorsero gli opifici sul bordo dei fiumi perché l’energia proveniva ancora dal moto delle acque. Alla catena di montaggio occorse almeno un ventennio per cambiare la produzione e ci fu di mezzo la Grande guerra (la prima Ford T vide la luce nel 1913). La fabbrica robotizzata ha atteso oltre un decennio prima di rimpiazzare “l’operaio massa”. Lo smart working, invece, ha portato il lavoro fuori dai capannoni e dagli uffici in meno di tre mesi. Ma che mesi. La Deloitte, prima società mondiale di consulenza, ha pubblicato un paio di ampi studi per spiegare come cambiano le imprese nella produzione e nei servizi. Partendo da qui abbiamo chiesto ad alcuni manager italiani di primo piano come stanno vivendo questo sconvolgimento; ciascuno a suo modo delinea i tratti di un’altra rivoluzione industriale, la quinta (dipende dai punti di partenza), o forse la quarta bis perché le innovazioni introdotte erano maturate prima che il Grande Confinamento le diffondesse con una velocità inaspettata.

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Lo smart working della pandemia ha portato il lavoro fuori dai capannoni e dagli uffici in meno di tre mesi. Ma che mesi


 

La Jenny, chiamata Giannetta in Italia, consentiva a un solo operaio di gestire otto o più aste del telaio e ha segnato il passaggio dall’artigianato alla manifattura moderna. La Jenny del mondo post Covid 19 possiamo trovarla nelle aziende di credito e nelle assicurazioni, grazie alla combinazione di lavoro agile e servizi online. Spiega Roberto Nicastro, vicepresidente della Ubi banca: “Un gestore che prima trattava 180-200 clienti oggi può arrivare a 250-300, un operatore che interloquiva con una persona fisica alla volta oggi può averne 3 o 4 in videochat. L’aumento della produttività è davvero rilevante”. Ma non c’è solo la dimensione contabile: “E’ caduta una barriera culturale sia tra i clienti sia tra gli stessi lavoratori”. Per una decina di anni l’introduzione delle tecnologie digitali sono state vissute con preoccupazione se non con paura, adesso sono considerate una opportunità. “Abbiamo messo in lavoro remoto 21 mila 500 persone dalla sera alla mattina e non abbiamo mai chiuso”, racconta Claudio Descalzi, amministratore delegato dell’Eni. “Non solo, abbiamo potuto coordinare anche diecimila collaboratori che abbiamo sul terreno, così i pozzi sono rimasti in funzione ovunque, il petrolio e il gas hanno continuato a fluire”.

 

Secondo Carlo Cimbri, amministratore delegato della Unipol, “questo periodo di per sé non è un creatore di novità, ma un enorme acceleratore. Il trend era già avviato, però evolveva lentamente; lo smart working era stato già sperimentato, le tecnologie erano già disponibili, tuttavia lo choc ha obbligato tutti a stringere i tempi. Molta di questa esperienza rimarrà e diventerà la base per una riforma dell’intera organizzazione del processo produttivo, soprattutto nei servizi. Cambierà il posto di lavoro, il modo in cui ciascuno si rapporta alla propria mansione. Io non credo in una completa sostituzione, non lavoreremo tutti da casa, ma penso che ci stiamo avviando verso un sistema misto. L’isolamento può diventare un problema, non solo psicologico, anche produttivo; la conoscenza diretta con i clienti, l’incontro, il rapporto ravvicinato restano fondamentali quando si tratta di svolgere funzioni complesse e delicate come l’impiego del risparmio”.


“Un gestore che prima trattava 180-200 clienti oggi può arrivare a 250-300”, dice Roberto Nicastro, vicepresidente di Ubi


 

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Anche alla Pirelli sono convinti che il rapporto diretto, il luogo fisico, la conoscenza personale restino indispensabili, tuttavia si riparte con una nuova organizzazione che richiede nuove regole. “Non possiamo replicare il modello di ieri”. Su questo tasto batte Marco Tronchetti Provera, vicepresidente operativo e amministratore delegato del gruppo. Ciò vale per le imprese, come per l’economia in generale; e l’Italia ha bisogno più di altri di cambiare. Il lockdown al quale siamo stati costretti ha introdotto alcune trasformazioni destinate a rimanere a lungo, se non a diventare parte della nostra nuova normalità. Vanno riviste così anche le relazioni industriali, ai sindacati e alla Confindustria non resta che rimboccarsi le maniche facendo cadere totem e tabù. “La comunicazione digitale mediante la banda larga ad alta velocità e il 5G, il lavoro da remoto e il modello ‘online first’, sono destinati a diventare una peculiarità lavorativa che molti apprezzeranno”, spiegano alla Pirelli. “La metà delle aziende sta programmando di inserire il lavoro da remoto come opzione permanente per i ruoli che lo consentono. La necessità di passare ad automazione e digitalizzazione è diventata imperativa. Ciò va ben oltre le linee di assemblaggio robotizzate: l’automazione intelligente basata sull’intelligenza artificiale significa che molte mansioni, dalla progettazione all’amministrazione, dalla pulizia di una sala operatoria al volo di un drone, possono essere svolte da macchine autonome che ovviamente non sono colpite dal coronavirus”, sottolinea uno studio pubblicato sul sito.


“Abbiamo messo in lavoro remoto 21 mila 500 persone dalla sera alla mattina”, dice Claudio Descalzi, ad di Eni


 

Nuovo modo di lavorare, innovazione tecnologica, per Corrado Passera sono già realtà nella sua banca Illimity che nasce con una forte impronta digitale. La svolta imposta dalla pandemia indica quale dovrebbe essere la priorità delle priorità: l’istruzione. E’ fondamentale per cogliere il cambiamento e modernizzare l’Italia dove, invece, proprio la scuola viene lasciata in coda: riapre più tardi, non sappiamo ancora quando né come, senza una definizione degli standard, dei contenuti, degli insegnamenti. E’ una distruzione tutt’altro che creatrice, proprio mentre il mondo dell’educazione dovrà essere ripensato in profondità per rispondere alle trasformazioni del lavoro. Il capitale umano è la chiave di questa grande trasformazione verso la quale oggi c’è un atteggiamento più aperto che in passato.

 

“Anche i clienti hanno mostrato una maggiore disponibilità ad accogliere servizi da remoto, non solo gli agenti e i dipendenti delle compagnie”, conferma Cimbri. “Un tempo era difficile convincerli a compiere il salto nel digitale, oggi invece sembra non solo necessario, ma naturale. L’assicurazione moderna, del resto, non può non avere un approccio multicanale”. Uno dei cambiamenti più evidenti riguarda il consumo: “In un paese per molti versi più lento come l’Italia l’ecommerce ha segnato una rottura rispetto al passato. Amazon ha trasformato anche la catena produttiva a monte. Auspico che nascano nuovi soggetti anche da noi, ma soprattutto su scala continentale: perché non una Amazon europea in grado di fare concorrenza al colosso americano? Il supermercato è emerso come un luogo indispensabile, le grandi superfici, invece, sono in difficoltà. Il commercio di prossimità ha un futuro davanti, se si specializza. Tutti dovranno entrare nel mondo dell’ecommerce”.


“Non possiamo replicare il modello di ieri”, ripete Marco Tronchetti Provera, vicepresidente operativo e ad di Pirelli


 

Claudio Descalzi sta gestendo una delle fasi più difficili mai attraversate dall’Eni. Basti pensare che il prezzo dei petrolio non è mai caduto tanto in basso. Quindi occorre “lavorare per il presente e nello stesso tempo preparare un futuro raggiungibile. Il Covid-19 ha introdotto una anomalia negativa”, aggiunge l’amministratore delegato, “ma la sfida per noi è cominciata nel 2014 quando è emerso l’eccesso di offerta sul mercato degli idrocarburi ed è balzata in primo piano la lotta al riscaldamento climatico. Da sei anni, dunque, siamo impegnati in una transizione molto complessa e la pandemia ha aumentato la pressione. Il programma 2050 lo abbiamo varato prima del Covid-19; abbiamo ripensato la nostra organizzazione quando il prezzo era alto puntando su tecnologie più efficienti e una decarbonizzazione spinta in ogni comparto produttivo; abbiamo investito 4 miliardi di euro nella ricerca; abbiamo portato il punto di pareggio a 25 dollari il barile; pensi che sei anni fa il greggio costava ben 100 dollari. La recessione ci ha indotto a ridurre l’offerta e tagliare i costi operativi, accelerando il cambiamento”.

 

Come si fa a trasformare l’azienda in corsa, mentre scoppia una crisi mai vista? “E’ fondamentale comunicare”, aggiunge Descalzi, il quale dedica molto del suo tempo proprio alla comunicazione interna. “Tutta l’organizzazione deve sapere dove si è e dove si sta andando; l’Eni è presente in 64 paesi, la società non può sentirsi sfasata. Il consenso è un aspetto chiave. Il capo di una società deve impegnarsi direttamente ed è importante passare attraverso tutta la linea operativa che è fatta di esperienze, conoscenze, consuetudini. Far capire che ci sono forti radici e nello stesso tempo avviare un cambiamenti dinamico, questo è l’obiettivo. Se avessimo puntato sui prezzi sarebbe stato catastrofico, invece abbiamo scelto le nostre competenze e il contenimento dei costi, ma non è facile rimettere in discussione vecchie idee e comportamenti abituali. L’altra virtù nell’era dell’incertezza è la trasparenza nei confronti di tutti di diversi pilastri sui quali si regge la società: i collaboratori, il consiglio di amministrazione, gli investitori, i clienti, il mondo esterno”. Non è un equilibrio semplice né garantito a priori, ma forse il compito più arduo in questa strategia della comunicazione è farsi conoscere all’esterno e far accettare il nuovo profilo. “Il modo migliore è portare fatti, risultati industriali per mostrare che il cambiamento è effettivo”, conclude Descalzi. “Non si possono vendere sogni né promesse, ma solo le cose fatte e quelle che si stanno facendo”.


Carlo Cimbri, ad di Unipol: “Anche i clienti hanno mostrato una maggiore disponibilità ad accogliere servizi da remoto”


 

Abbracciare la lunga veduta è uno dei precetti fondamentali della Deloitte. “Dovrebbe valere anche per la politica”, dice Cimbri. “Il consenso giorno per giorno, il predominio del tweet, è esattamente l’opposto di quel che serve”. Le imprese probabilmente lo hanno capito prima e meglio dei politici? “Chi amministra i soldi degli altri ha il dovere di lasciare l’impresa meglio di come l’ha trovata. Se non vuol essere una etichetta alla moda, sostenibilità significa crescere in modo da assicurare un futuro migliore. Siamo sollecitati da forze contrapposte: l’azionista vuole il breve periodo, il debito richiede stabilità, i dipendenti reclamano stipendi migliori, i fornitori pretendono di essere pagati in tempo. Nell’immediato questi interessi possono divergere, diventano invece convergenti solo in un periodo più lungo. Non si tratta di buttare la palla avanti, ma di cercare l’equilibrio tra tutte le componenti dell’impresa. Recuperare le esigenze della collettività piuttosto che dei singoli, senza invasioni di campo, oggi diventa una necessità, non solo una scelta. Il confronto continuo con il mercato resta fondamentale per dare consistenza alle strategie aziendali, ma dobbiamo piegare il breve in funzione del lungo periodo, trovando il punto di incontro di volta in volta migliore”.

 

Il nuovo scenario economico mette tutti davanti a sfide difficili. Prendiamo proprio le assicurazioni: come fa una compagnia a garantire rendimenti appetibili alla clientela quando i tassi di interesse sono addirittura negativi? “I tassi resteranno bassi anche per gli assicurati”, conferma Cimbri. “In una fase di grande incertezza e volatilità dei mercati diventa ancor più importante la garanzia del capitale a scadenza”. Incertezza e volatilità mettono in discussione la regolamentazione dei mercati. Ha ancora senso per le banche e le assicurazioni valutare attività e passività in base ai prezzi correnti? “Lo ha”, risponde Cimbri, “in quanto spinge gli operatori ad affinare l’offerta e mitigare le oscillazioni con bouquet di titoli a rendimenti più bassi, ma meno volatili. Tuttavia abbiamo vissuto oscillazioni pazzesche e quando l’indice delle assicurazioni è così volatile c’è qualcosa che non funziona nel sistema.


Il banchiere Nicastro teme che l’enorme quantità di moneta immessa nel sistema generi un’impennata dell’inflazione


 

Alla fine, tutto ciò ricade sul cliente e sull’intera economia. Le banche sono diventate più solide aumentando il loro capitale e introducendo i capital buffer, l’altra faccia della medaglia è la riduzione del credito che penalizza la crescita. Il predominio dei bilanci trimestrali è una vittoria della finanza rispetto all’imprenditoria e al lavoro, costringe a blandire i mercati finanziari perdendo di vista gli obiettivi di fondo. Il rischio default è il vero punto di riferimento, non il mark to market”. Insomma, per il numero uno della Unipol, “l’attuale regolamentazione bancaria e assicurativa ha dimostrato di essere pro ciclica, accentua le crisi invece di ridurle. Ciò vale anche per come viene valutata la presenza dei titoli di stato nei bilanci delle banche e delle assicurazioni. Occorre facilitare la loro sottoscrizione, non criminalizzarli. Qui la politica deve davvero riprendere il suo posto e non delegare le scelte a organi tecnici, perdendo così di vista gli obiettivi di fondo e l’interesse nazionale”. E’ una questione centrale per l’Italia, ma non solo. La Federal Reserve non ha esitato a comprare bond del Tesoro fino a tremila miliardi di dollari per evitare il default.

 

Le regole basilari del lavoro, insomma, sono in continuo mutamento e ciascuno deve trovare la propria strada per andare avanti. Uno dei maggiori impatti economici è il prorompente avvento dell’on demand, confermano alla Pirelli: “Le aziende più agili riusciranno a raccogliere i frutti. Le restrizioni non saranno eliminate in un solo colpo in tutto il mondo: le condizioni varieranno a seconda dei paesi. Ed è possibile che le restrizioni prima vengano allentate e poi nuovamente imposte. Le supply chain transfrontaliere, che una volta erano scorrevoli e facevano affidamento su un movimento libero e prevedibile, oggi non lo sono più”. Dunque, la globalizzazione è in ritirata? Ci saranno, secondo Nicastro, fenomeni di rimpatrio di alcune produzioni, diverse da settore a settore. “L’Europa deve offrire la possibilità di produrre in casa alcune componenti strategiche con una sorta di divisione del lavoro su base continentale. Non credo comunque in arroccamenti massicci su base regionale a meno di pesanti colpi di coda geopolitici”.


Abbracciare la lunga veduta è uno dei precetti fondamentali della Deloitte. “Dovrebbe valere anche per la politica”, dice Cimbri


 

La ripartenza sarà faticosa anche nel 2021: “Non sono ottimista perché l’impatto sui comportamenti dei soggetti economici è significativo”, stima Nicastro. Se quest’anno vedremo una caduta del 10 per cento e l’anno prossimo una ripresa del 4 per cento, avremo comunque un prodotto lordo di sei punti percentuali inferiore rispetto al 2019, che ci trascineremo anche nel 2022. Le banche vedranno aumentare le sofferenze e i crediti deteriorati. “Ho in mente due scenari possibili, anche se è troppo presto per dire quale sarà prevalente”, spiega il banchiere. “O avremo un andamento a V, e allora ci sarà una svolta dopo l’estate, oppure la linea del prodotto lordo traccerà una L, il che significa trascinare la recessione per 18-24 mesi. Ciò provoca un aumento del rischio e dei costi, problema tanto più essenziale quanto più lenta sarà la ripresa”. Nicastro teme inoltre che l’enorme quantità di moneta immessa nel sistema generi una impennata dell’inflazione, anche perché la Cina farà sempre meno da calmiere. In sostanza, “dal lato dei ricavi resteremo in difesa. Tuttavia non dobbiamo trascurare alcune opportunità. Le banche, per esempio, sono oggi più veloci e la crisi ha fidelizzato la clientela. Proprio osservando l’accelerazione prodotta durante il lockdown si può essere meno pessimisti”.

 

Un ciclo si chiude e proprio questo “è il momento di un nuovo pensiero strategico. I produttori che hanno fondato la propria attività su modalità di lavoro snelle nell’era della globalizzazione si trovano a dovere modificare non solo la proprie prassi, ma l’intera filosofia”, questo il messaggio che i vertici della Pirelli mandano all’interno e all’esterno del gruppo. “Il modello lavorativo just-in-time che fa affidamento su un inventario minimo, su rapporti integrati con un piccolo numero di fornitori primari e su una logistica scorrevole ha dimostrato di essere vulnerabile. Se in passato le aziende discutevano soprattutto di efficienza, ora pensano principalmente alla resilienza; in concreto significa riuscire a creare attività lavorative che non crollano se una parte della catena si rompe”. Descalzi spiega che un modo per rendere più “resiliente” l’Eni consiste nell’aumentare l’offerta di prodotti e servizi ai consumatori, uno dei cambiamenti introdotti come contrappeso alla volatilità delle materie prime, per “difendere il presente e rendere più credibile il futuro”.


Le regole basilari del lavoro sono in continuo mutamento e ciascuno deve trovare la propria strada per andare avanti 


Le imprese si sono mosse prima dei governi. Ma potranno affrontare da sole la nuova rivoluzione industriale? E’ buona regola non finire un articolo con una domanda, però la risposta non c’è, siamo solo all’inizio.

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