PUBBLICITÁ

Se cadono i giganti

Stefano Cingolani

Fiat Chrysler, Benetton, Ilva, Pirelli: che ne sarà di loro? La questione industriale è il cuore matto della ripresa

PUBBLICITÁ

Martedì 19 maggio il Times di Londra pubblica in prima pagina una grande foto di due giovani donne sedute al tavolino di un caffè milanese nell’angolo della galleria che guarda piazza del Duomo; sullo sfondo la facciata della cattedrale. Il New York Times non è da meno e punta sui saloni di bellezza. Immagini simboliche, la vita ricomincia e i piaceri grandi o piccoli ne sono parte rilevante. Ecco l’Italia. La società dello spritz, la cultura della movida, la politica dell’effimero, questa è la ripartenza, questa è la nostra libertà post-moderna. Di che cosa hanno scritto finora i giornali, che cosa ci hanno mostrato le dirette televisive? Pizze, spiagge, trucchi e parrucchi, hanno turbato il governo, diviso i partiti, riacceso la fiammella nazional-populista; eppure appesa a un filo c’è la sorte di dieci milioni di lavoratori dell’industria e dei servizi ad essa strettamente collegati, che portano sulle spalle il prodotto lordo dell’Italia. Tra commercio, alberghi e turismo ci sono circa 5 milioni di addetti, un milione 30 mila gli statali, comprese le forze di polizia, quasi due milioni della sanità, un milione e 800 mila nella scuola. Questi sono i principali settori, tutti danno il loro contributo, ma a tenerci a galla finora sono state le esportazioni di beni prodotti dalle aziende manifatturiere, quelle “cose belle e che piacciono al mondo” delle quali parlava Carlo Maria Cipolla.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Martedì 19 maggio il Times di Londra pubblica in prima pagina una grande foto di due giovani donne sedute al tavolino di un caffè milanese nell’angolo della galleria che guarda piazza del Duomo; sullo sfondo la facciata della cattedrale. Il New York Times non è da meno e punta sui saloni di bellezza. Immagini simboliche, la vita ricomincia e i piaceri grandi o piccoli ne sono parte rilevante. Ecco l’Italia. La società dello spritz, la cultura della movida, la politica dell’effimero, questa è la ripartenza, questa è la nostra libertà post-moderna. Di che cosa hanno scritto finora i giornali, che cosa ci hanno mostrato le dirette televisive? Pizze, spiagge, trucchi e parrucchi, hanno turbato il governo, diviso i partiti, riacceso la fiammella nazional-populista; eppure appesa a un filo c’è la sorte di dieci milioni di lavoratori dell’industria e dei servizi ad essa strettamente collegati, che portano sulle spalle il prodotto lordo dell’Italia. Tra commercio, alberghi e turismo ci sono circa 5 milioni di addetti, un milione 30 mila gli statali, comprese le forze di polizia, quasi due milioni della sanità, un milione e 800 mila nella scuola. Questi sono i principali settori, tutti danno il loro contributo, ma a tenerci a galla finora sono state le esportazioni di beni prodotti dalle aziende manifatturiere, quelle “cose belle e che piacciono al mondo” delle quali parlava Carlo Maria Cipolla.

PUBBLICITÁ

 

Se crollano i giganti anche i nani finiscono travolti dalle loro macerie, invece i cavalieri della decrescita inforcano i loro destrieri

La questione industriale è il cuore matto della ripresa. La Fiat Chrysler sta negoziando con Banca Intesa un prestito di 6,3 miliardi di euro con garanzia pubblica per la sua partecipata italiana (35 mila dipendenti, 28 miliardi di euro di ricavi secondo Mediobanca, prima impresa manifatturiera privata). Edizione, cioè il gruppo Benetton (12 miliardi di fatturato, 80 mila dipendenti) vuol fare altrettanto sia per Autostrade sia per Autogrill. Sono campanelli d’allarme che andrebbero ascoltati, lo specchio di una crisi che non risparmia i grandi. Le polemiche hanno un sapore stantio e non fanno i conti con la realtà. Una impresa dell’auto che non vende una vettura per mesi ha già svuotato buona parte della cassa; non solo la Fca, ma la Volkswagen come si vede dalle misure adottate in Germania. Lo stesso per un’autostrada dove non passa nessuno. Se crollano i giganti anche i nani finiscono travolti dalle loro macerie, invece i cavalieri della decrescita inforcano i loro destrieri. La Fca è incorporata in Olanda, i Benetton sono veneti però debbono pagare per quel che hanno provocato a Genova. E dove mettiamo l’Ilva in mano agli anglo-indiani? Ora chiede altra cassa integrazione, ma non è il momento di chiudere l’acciaieria? Curioso che non susciti la stessa reazione il salvataggio dell’Alitalia per la quale vengono versati altri 3 miliardi di euro dei contribuenti questi sì, di fatto a fondo perduto.

PUBBLICITÁ

 

Lungo è il catalogo delle imprese che hanno chiesto i prestiti garantiti dallo stato attraverso la Sace. Nei 18 miliardi di euro destinati alla grande industria ci sono 250 “operazioni ordinarie”, quelle rivolte a gruppi con ricavi oltre 1,5 miliardi e più di 5 mila dipendenti, e che richiedano almeno 375 milioni. Sono in lista d’attesa Fincantieri, Aspi, Costa Crociere, Maire Tecnimont, Api, Alpitour, Autogrill, Adr, Magneti Marelli, Kos, Sogefi, Unieuro, La Rinascente, Ovs, Ariston, Safilo. Su 18 miliardi di euro, finora i finanziamenti sbloccati si fermano a 100 milioni perché le banche erogatrici devono riunire i consigli di amministrazione per decidere. Le società industriali italiane per finanziarsi a 10 anni pagavano, prima della pandemia, tassi spesso sopra il 5 per cento. Tale provvista costerà molto meno se lo stato garantisce al 70-80 per cento le banche dalle perdite sui mancati rimborsi. Il decreto impone solo uno 0,50 per cento di commissione annua al Tesoro per le garanzie, cui va aggiunto il tasso bancario, per una forbice complessiva stimata da fonti attive sui dossier dal 2 al 3 per cento annuo: in media, meno della metà. La recessione rischia di far aumentare i crediti inesigibili, si calcola almeno un 5 per cento dei 200 miliardi del decreto di aprile, il 70-80 per cento della perdita ricadrà sull’erario. I prestiti sono vantaggiosi, ma non sono regali e in ogni caso servono solo ad affrontare l’emergenza.

 

E poi c’è il fronte del no. Appena la morsa si è allentata, dalla gabbia sanitaria è uscita la solita grande confusione. Il movimento No 5G

La politica economica non ha compiuto il salto promesso dal sussidio al rilancio per il quale occorrono investimenti, pubblici e ancor più privati; non liquidità soltanto, ma robusti innesti di capitale. Corrado Passera, il manager che ha rilanciato le Poste, il banchiere che ha guidato Banca Intesa e l’ha fusa con il Sanpaolo di Torino, il ministro dello Sviluppo del governo guidato da Mario Monti ha una proposta forte: “Un programma di incentivi fiscali mai visto per le aziende che investono per rilanciarsi e ristrutturarsi. Intendo proprio fisco zero per un certo periodo, una moratoria vincolata al rilancio degli investimenti. Perché questa è la chiave della crescita”. Farebbe così se fosse oggi al governo? Provocato dal Foglio risponde che sta benissimo alla guida della sua Illimity, la banca online che fornisce credito alle piccole e medie imprese “ad alto potenziale” che continua a crescere e macinare utili nonostante la crisi. Tuttavia si fa tentare: “Se fossi di nuovo ministro proporrei di agire innanzitutto sulla leva fiscale, in modo estremamente energico, come ho detto. Poi, ogni settore ha bisogno di piani appropriati. Per mettere in moto i cantieri non è questione di risorse, ma soprattutto di semplificare le procedure”, aggiunge Passera, “la sanità, cioè la filiera che comprende la ricerca, la produzione farmaceutica, gli ospedali, ha forse il potenziale più alto per un paese vecchio come il nostro. Qui abbiamo sofferto una frantumazione decisionale che non ha aiutato a gestire la crisi. Tuttavia l’Italia è competitiva e se la può giocare. Al turismo non basta il salvataggio, occorre favorire nuove aggregazioni per creare strutture più vaste e solide. Ma la sfida maggiore riguarda l’istruzione”. Il distant learning ha messo in risalto che servono strumenti diversi, infrastrutture potenziate e profonde riforme nei contenuti, in quel che si studia e in come si studia. Un tempo l’età dell’apprendimento finiva e cominciava quella del lavoro, adesso non c’è più soluzione di continuità. “Prendiamo la legge sull’apprendistato: non è male, tuttavia i tetti in termini di età non hanno più senso nel mondo odierno. Il rapporto scuola lavoro è solo uno degli aspetti. In questo caso, si tratta di potenziare gli istituti tecnici superiori”. E l’industria manifatturiera? L’alimentare ha continuato a tirare così come la farmaceutica, ma la meccanica che è il cuore della produzione e dell’export? “E’ inserita in una filiera internazionale e si riprenderà, si tratta di accompagnare questa ripresa favorendo la crescita anche dimensionale delle imprese, la loro aggregazione, l’ammodernamento tecnologico”.

PUBBLICITÁ

 

PUBBLICITÁ

Marco Tronchetti Provera parla di “appuntamento con la storia”: anche l’amministratore delegato della Pirelli chiede meno tasse e più investimenti perché “se scriviamo centinaia di pagine per replicare l’Italia di ieri corriamo un rischio enorme”, ha detto in una intervista alla Repubblica. E l’Italia di ieri è quella che cresceva meno degli altri paesi. C’è a disposizione una quantità di denaro enorme, sia italiane sia europee, la questione di fondo è come vengono utilizzate. L’Unione europea si sta muovendo bene, al di là delle aspettative e anche il rilancio politico di Angela Merkel è un fattore di equilibrio e stabilità. Dunque, a questo punto tocca all’Italia e qui le resistenze sono molte, politiche e di sistema. Chi ha provato a leggere l’ultimo decreto monstre si rende conto che non c’è solo la burocrazia, c’è una impostazione di fondo che rende tutto più difficile. Esiste una grande risorsa interna da utilizzare meglio: il risparmio privato; ci sono 4.400 miliardi di euro in investimenti finanziari, impiegandone solo il 5 per cento per sottoscrivere titoli di stato a lunga scadenza metterebbe a disposizione altri 220 miliardi per modernizzare il paese, calcola Tronchetti Provera. Si possono emettere Btp finalizzati a progetti precisi, avrebbero un effetto acceleratore insieme ai 100 miliardi che dovrebbero arrivare dal Recovery Fund. Nessun prestito forzoso, si tratta di offrire condizioni favorevoli ai risparmiatori: tassi e scadenze, ma anche progetti perché sia chiaro dove e come vengono impiegati i fondi. I quattrini non mancano, gli strumenti anche, occorre un salto culturale e politico.

 

PUBBLICITÁ

Corrado Passera propone “un programma di incentivi fiscali mai visto per le aziende che investono per rilanciarsi e ristrutturarsi”

La Pirelli ha seguito un percorso di internazionalizzazione diverso rispetto a Fca: il suo capitale è a maggioranza cinese (ChemChina ha il 45 per cento dal 2017 quando il gruppo è tornato in borsa), ma il quartier generale e il centro ricerche, il cuore e il cervello, sono a Milano. Quinto al mondo negli pneumatici, è posizionato sulla fascia alta, non chiede prestiti garantiti perché non ne ha bisogno, possiede liquidità sufficiente e il suo business è meno colpito dalla recessione. La campagna anticinese preoccupa lo storico gruppo italiano, in realtà dovrebbe preoccupare tutti visto che l’Impero di mezzo rappresenta un terzo del prodotto lordo mondiale. Altri grandi si tengono fuori dalla pioggia di prestiti, come la Brembo, per la quale il mercato domestico rappresenta appena il 10 per cento del fatturato. Alberto Bombassei, che dal 30 marzo è diventato azionista della Pirelli con il 2,43 per cento suscitando il sospetto di una futura fusione giudicata “fantasiosa”, chiede interventi per l’automotive che produce un euro su dieci in Italia e dal quale proviene il 16 per cento delle entrate fiscali, 76 miliardi di euro lo scorso anno. “Il governo”, denuncia il presidente della Brembo, “si è cullato nell’illusione che la mobilità si risolve finanziando biciclette e monopattini elettrici”. Un’altra grande impresa privata, la Prysmian (produce cavi, con un fatturato da 11 miliardi di euro), durante la pandemia ha stipulato un contratto con la Germania che garantisce sette anni di lavori e incassi per un miliardo di euro. Si tratta di una rete elettrica completamente interrata, scelta strategica compiuta dal governo tedesco per maggiore sicurezza e per limitare l’impatto sull’ambiente. La Prysmian ha vissuto dall’interno l’esplosione del Covid-19 in Cina dove fattura 300 milioni di euro, ha nove stabilimenti e una partecipazione finanziaria in una impresa di Wuhan, chiusa da metà gennaio a fine marzo. La Cina riparte, la manifattura torna ai livelli del 2019 grazie anche a incentivi ritagliati sulle sue esigenza e dalla Germania arrivano segnali incoraggianti. Ma non sarà sufficiente acchiappare al volo l’ultimo vagone del treno straniero. Valerio Battista, il manager che ha gestito la Prysmian da quando è uscita dal gruppo Pirelli nel 2005 grazie a Goldman Sachs, accompagnando dal 2009 la sua trasformazione in public company, lamenta il ritardo dell’Italia nella fibra ottica: la domanda l’anno scorso era addirittura diminuita.

 

Incollati ai computer e ai telefonini per lavoro, studio e divertimento, tutti abbiamo percepito il balzo digitale. Fastweb ha segnalato all’Agcom un aumento del traffico video, che rappresenta oltre la metà del traffico complessivo (+30 per cento), il traffico nei giochi pari a circa il 15 per cento è triplicato, stabile la navigazione internet, pari al 18 per cento del traffico complessivo. Il volume di “picco” che normalmente si verifica la sera è cresciuto del 40 per cento. La rete ha mostrato i suoi limiti, sotto la pressione della domanda è rallentata tranne nelle aree con la fibra ottica che non copre tutto il paese: è la prova che l’infrastruttura ha bisogno di essere estesa e rafforzata. Colmare il divario digitale è una delle priorità della ripresa. Sembra ovvio, ma non è così. Alberto Calcagno, amministratore delegato di Fastweb, chiede di ripensare il piano ultra banda larga con il relativo mandato a Open fiber di portare la fibra nelle zone non coperte. “Non è più adeguato”, ha detto al Sole 24 Ore, “per la ricostruzione servirà un patto di fiducia tra istituzioni, imprese, consumatori e lavoratori e il digitale sarà un fattore decisivo della rinascita”.

 

Marco Tronchetti Provera parla di “appuntamento con la storia”: anche l’ad di Pirelli chiede meno tasse e più investimenti

Un patto, già, ma come la mettiamo con il fronte del no? Chiuso in casa, attanagliato dalla paura, ha dovuto tacere; appena la morsa si è allentata, dalla gabbia sanitaria è uscita la solita grande confusione. Il comune di Montebelluna, in provincia di Treviso, amministrato dal centrodestra, nel Veneto della Lega “moderata”, ha emesso un’ordinanza contro il 5G. Non è il primo né l’unico. Il No5G è un movimento nato prima della pandemia che torna in piazza e fa proseliti. Lo stesso fanno i No Tav, No Tap, No Triv. E poi c’è il grande No ai grandi cantieri che si annida in Parlamento e nel governo.

 

Secondo l’Ance le opere realmente bloccate sono in tutto 749 per un controvalore di 62 miliardi: 473 al Nord (33,5 miliardi), 115 al Centro (11,1 miliardi) e 161 nel Mezzogiorno (17,2 miliardi). Centouno di questi interventi vengono classificati come grandi opere, con un importo dei singoli lavori superiore a 100 milioni di euro, ed un ammontare complessivo di 56 miliardi, mentre le altre sono opere medio-piccole (5,5 miliardi di spesa). Tenere tutto fermo, sostiene l’Associazione nazionale dei costruttori, significa rinunciare ad un potenziale economico stimato in 962 mila nuovi posti di lavoro ed in ben 217 miliardi di euro come ricaduta sull’economia. A rallentare gli interventi non è tanto la mancanza di fondi perché circa 155 miliardi di euro sono già disponibili a bilancio, quanto la giungla amministrativa, tra procedure, autorizzazioni e permessi. Stiamo studiando, dicono i ministri, intanto il terzo decreto d’emergenza è in Gazzetta ufficiale e ancora non sappiamo cosa fare.

 

L’ostacolo è più che mai politico perché il fronte del No sta nella pancia dello stato debole (altro che innovatore o imprenditore) neanche fosse il manipolo di Ulisse nel cavallo di Troia. Un fossato è stato scavato in questi anni e ha condizionato i comportamenti collettivi, la stampa, i partiti. “Riconciliare politica e industria”, come auspica Nicola Monti, amministratore delegato di Edison il primo gruppo energetico privato, è l’obiettivo di chi vuol produrre, dovrebbe esserlo anche di chi vuol governare. Vasto programma avrebbe replicato Charles de Gaulle, eppure di qui l’Italia deve passare per non regredire; non si può più cincischiare perché la pandemia ha reso impalpabile il confine tra rinascita e declino.

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ