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Mascherine: il budget di Arcuri dura un secondo, imprese insoddisfatte

Luciano Capone e Carlo Stagnaro

Invitalia pubblica i dati definitivi della gara “Impresa sicura”. I numeri sono indicativi della totale inadeguatezza del bando. L'’incivile lotteria del click day e una questione di uguaglianza

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Nel suo romanzo, “Il Colibrì”, a un certo punto Sandro Veronesi descrive così un incidente mortale. “E se il gancio si fosse rotto un decimo di secondo dopo? Nella vita reale, un decimo di secondo è niente, è una specie di astrazione, un battito di ciglia… non gli sarebbe successo nulla. Un ventesimo di secondo, roba da accendere un cero alla Madonna, ma salvo. Tre centesimi: bum – colpito e affondato”.

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Nel suo romanzo, “Il Colibrì”, a un certo punto Sandro Veronesi descrive così un incidente mortale. “E se il gancio si fosse rotto un decimo di secondo dopo? Nella vita reale, un decimo di secondo è niente, è una specie di astrazione, un battito di ciglia… non gli sarebbe successo nulla. Un ventesimo di secondo, roba da accendere un cero alla Madonna, ma salvo. Tre centesimi: bum – colpito e affondato”.

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Per le imprese italiane colpite dall’emergenza Covid-19, anche i tre centesimi di secondo – molto meno del battito d’ali di un colibrì – sono un tempo ampio. L’accesso agli aiuti statali per la sicurezza dei loro lavoratori si è giocato su un periodo molto più ristretto: bastava un decimillesimo di secondo per essere fuori. Questi sono stati i tempi della gara per il rimborso dei dispositivi di protezione individuale (Dpi) in cui le imprese sono state messe in competizione dal commissario per l’emergenza coronavirus Domenico Arcuri.

  

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Con il bando “Impresa sicura” di Invitalia, l’agenzia statale di cui è amministratore delegato da 13 anni, Arcuri si è impegnato a rimborsare le imprese delle spese per i Dpi (mascherine di ogni tipo, guanti in lattice, tute, camici, calzari, termoscanner, detergenti e disinfettanti). Il bando, destinato a tutte le imprese italiane (4,4 milioni, per circa 17 milioni di addetti), copre i costi sostenuti negli ultimi due mesi fino a un massimo di 150 mila euro. Ma le risorse disponibili sono pochissime: 50 milioni di euro. In pratica valgono 11 euro a impresa, meno di 3 euro a dipendente: cioè pochi centesimi al giorno, neppure sufficienti a comprare un’introvabile mascherina chirurgica a prezzo calmierato. Cinquanta milioni di euro possono essere un mucchio di soldi e ben impiegati, ma è evidente che in questo caso si trattava di una somma insufficiente. Ma la scarsità è evidentemente un habitat nel quale Arcuri si muove a proprio agio: nel caso delle mascherine destinate alla clientela retail, per le quali ha fissato il prezzo a 50 centesimi, ha contribuito a crearla. Per quanto riguarda le imprese, invece, o non si è accorto che 50 milioni di euro erano una dotazione ridicola, oppure se n’è accorto e non ha ritenuto di avvisare il governo. Se fosse così, l’esecutivo dovrebbe interrogarsi se sia l’uomo giusto. C’è una terza ipotesi: Arcuri se n’è accorto, ha lanciato l’allarme ma è stato ignorato. In tal caso, dovrebbe essere lui a chiedersi se si trova nel posto giusto. Comunque, date le condizioni di partenza, Arcuri si è trovato a sovrintendere un sistema nel quale il meccanismo reale di allocazione delle risorse era la coda: come per le mascherine nelle farmacie italiane e il pane nei forni sovietici. La gara prevedeva che la posta in palio fosse assegnata con l’incivile lotteria del click day: chi prima arriva, prima alloggia.

  

I numeri delle richieste, partite l’11 maggio alle 9:00, sono indicativi della totale inadeguatezza del bando. Dopo un minuto erano state presentate 59 mila domande per un importo complessivo di 500 milioni, ovvero dieci volte il budget a disposizione. Dopo 42 minuti, le richieste erano quasi raddoppiate (110 mila) e anche il corrispettivo economico: 1 miliardo di euro. Senza ulteriori dati a disposizione, facendo una semplice media, sul Foglio del 18 maggio avevamo previsto che il fondo si sarebbe esaurito entro 6 secondi: “Molte aziende dovranno aspettare il fotofinish per sapere se hanno diritto al ristoro oppure se sono state battute sul millesimo di secondo”. Abbiamo peccato di ottimismo.

   

Ieri Invitalia ha pubblicato i dati definitivi della gara “Impresa sicura”: 249 mila prenotazioni, di cui 208 mila valide, per un corrispettivo pari a 1,2 miliardi euro. E ha pubblicato anche la graduatoria, divisa in due elenchi: chi ha fatto in tempo e chi no. Ebbene, il fondo da 50 milioni si è esaurito dopo un secondo (1,046749 secondi per la precisione): uno vale uno, e un secondo vale tutto. Le imprese vincitrici della lotteria sono circa 3.150, quelle non ammesse le restanti 200 mila e dispari. Tra l’ultima impresa ammessa al rimborso – che si è prenotata alle ore 09:00:01.046749 – e la prima delle perdenti, a fare la differenza è stato 1 decimillesimo di secondo, e così per le successive perdenti distanti qualche milionesimo di secondo.

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Questa differenza temporale così minima, più rapida di fulmine, pone anche una questione di uguaglianza. Perché in un paese con un enorme digital divide, le imprese collocate in aree “grigie” e “nere”, cioè prive di banda larga, sono state praticamente escluse dalla gara. Anche tra quelle che hanno la fortuna di risiedere in zone ben servite, la qualità della connessione potrebbe aver fatto gran parte della differenza.

  

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Altro che colibrì. Vista la modalità per assegnare i fondi scelta da Arcuri, in questa emergenza per le imprese italiane si è dimostrato vero il vecchio adagio: “La vita è una tempesta, ma prenderselo in quel posto è un lampo”.

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