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È ora di attrarre, non di spaventare

Claudio Cerasa

Il caso Fca, i tic anti imprese, il nuovo stato etico. Un paese con la testa sulle spalle non dovrebbe chiedersi come puniamo le multinazionali ma come facciamo a farle sentire di più a casa

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Copiare invece che frignare. Capire invece che piagnucolare. Studiare invece che minacciare. L’incredibile polemica andata in scena negli ultimi giorni sul caso Fca ha mostrato una capacità innata della classe dirigente italiana di perdere di vista la differenza tra ciò che in un dibattito coincide con la fuffa e ciò che in un dibattito coincide invece con la ciccia.

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Copiare invece che frignare. Capire invece che piagnucolare. Studiare invece che minacciare. L’incredibile polemica andata in scena negli ultimi giorni sul caso Fca ha mostrato una capacità innata della classe dirigente italiana di perdere di vista la differenza tra ciò che in un dibattito coincide con la fuffa e ciò che in un dibattito coincide invece con la ciccia.

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La ciccia della questione non ha a che fare con la possibilità o meno che Fca possa ottenere il prestito chiesto a Intesa Sanpaolo e garantito da Sace per sostenere le attività produttive della sua controllata italiana – Fiat Chrysler è fiscalmente domiciliata nel Regno Unito, è legalmente domiciliata in Olanda, è quotata oltre che alla Borsa di Milano anche alla Borsa di New York, mentre Fca Italy ha sede a Torino e in Italia, ha 16 stabilimenti produttivi, 26 poli dedicati alla ricerca e allo sviluppo, 54 mila occupati, 300 mila considerando l’indotto e contribuisce a smuovere una filiera nel paese che occupa circa 1,6 milioni di italiani e paga miliardi di tasse in Italia, condizione vincolante, come previsto dall’articolo 1 del dl “Liquidità”, per poter chiedere la garanzia statale – ma ha a che fare con una questione più complessa che in questi giorni diversi professionisti dell’indignazione hanno curiosamente tralasciato.

 

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Il punto in questione non è dunque se Fca abbia o no il diritto di chiedere il prestito che ha chiesto a Intesa Sanpaolo. Il punto in questione che sembra non interessare molto ai giornali italiani – compresi quelli posseduti dagli stessi azionisti di Fca, che in questi giorni hanno fatto sfoggio del loro splendido conflitto d’interessi, difendendo con tono gagliardo i loro valorosissimi azionisti e dimenticando le gloriose stagioni delle lotte contro i caimani – ha a che fare con una domanda alla quale nessuno sembra voler rispondere: ma piuttosto che chiedersi se una multinazionale che ha sede anche in Italia possa accedere o no ai prestiti concessi alle multinazionali che hanno sedi in Italia, non varrebbe la pena chiedersi per quale ragione quella multinazionale ha scelto di spostare la sede fiscale in Inghilterra e la sede legale in Olanda, facendo leva su una libertà, la libera scelta per le imprese su dove mettere la propria sede, garantita dai trattati europei?

 

Se la risposta a questa domanda è che, signora mia, ci sono paesi cattivissimi che a differenza del nostro paese usano una qualche oscena forma di dumping fiscale la risposta è nel migliore dei casi da allocchi e nel peggiore dei casi da ignoranti: il governo gialloverde ha introdotto una flat tax per i pensionati stranieri con tassa fissa al 7 per cento per chi sceglie di trasferirsi al sud e prima dei gialloverdi i governi a guida Pd avevano introdotto nel 2017 delle norme per incentivare i paperoni non italiani a spostare il loro domicilio fiscale in Italia garantendo loro un’imposta fissa di 100 mila euro all’anno sui redditi prodotti all’estero.

 

Il tema dunque non è il dumping ma è una parola che i vecchi e nuovi populisti italiani tendono a dimenticare quando ragionano sul tema del trasferimento all’estero delle sedi legali e fiscali: la competitività di un paese. Nella scelta fatta da Fiat Chrysler Automobiles di spostare in Olanda la propria sede legale non c’è solo un tema legato alla famosa flessibilità della governance societaria, che permette il voto plurimo nelle assemblee degli azionisti, opportunità che dovrebbe essere ora introdotta dal decreto “Rilancio” anche in Italia per le società già quotate a Piazza Affari, ma c’è un tema che ha a che fare con una questione tabù nel nostro paese: l’efficienza del nostro sistema burocratico e giudiziario.

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Suggeriamo agli stessi professionisti dell’indignazione che sognano di esportare in Italia una forma oscena di stato etico chiedendo il diritto di poter concedere garanzie di stato solo alle aziende rispondenti ai princìpi dell’eticamente corretto di farsi una navigata veloce sul sito di “doing business”, di aprire una finestra relativa all’Italia e una relativa all’Olanda e di verificare cosa compare alla voce “enforcing contracts”, dove per enforcing contracts si intendono i tempi e i costi in ciascun paese per la risoluzione di una controversia commerciale e l’indice di qualità e di efficienza dei processi giudiziari. Cliccate e scoprirete che la ragione vera per cui molte multinazionali con radici italiane hanno scelto di spostarsi in Olanda ha a che fare con un dumping che ha origini diverse da quelle fiscali. Ovverosia: la durata media di una controversia civile, che in Italia dura in media 1.120 giorni, circa il doppio della media Ocse, che è di 589,6 giorni, e che in Olanda è di 514 giorni. Solo con politiche fiscali intelligenti – scrivono giustamente sul Foglio Andrea Tavecchio e Stefano Firpo – potremmo evitare di farci prendere per fessi da quei paesi che in questi anni hanno saputo usare la leva fiscale e societaria per attrarre le holding di molte nostre imprese. Più che rincorrere i fantasmi del passato, un paese con la testa sulle spalle per ragionare sul futuro forse dovrebbe partire da qui. Copiare invece che frignare. Capire invece che piagnucolare. Studiare invece che minacciare.

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