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Fca? Non servono polemiche ma vere politiche pro business

Stefano Firpo e Andrea Tavecchio

Un’idea: introdurre incentivi che supportino le imprese che decidano di trasferire in Italia attività svolte in stati extra-UE

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La polemica sull’accordo fra governo e gruppo Fca per una linea di credito da oltre 6 miliardi garantita all’ottanta per cento dal nuovo istituto della garanzia Sace introdotto dal cosiddetto decreto “Liquidità” di questo aprile è assurda. Lo è perché sembra essere una dimostrazione tangibile che le misure varate per dare liquidità al sistema produttivo possono avere un effetto davvero positivo e concreto. Tutto è sempre migliorabile, certo, ma 6 miliardi di nuova finanza alla filiera dell’auto sono tanti e questa è un’ottima notizia per l’Italia. Ed è assurda perché l’indotto, ormai ex mono cliente Fiat, costituisce un asset industriale di competenze fondamentale per il nostro paese

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La polemica sull’accordo fra governo e gruppo Fca per una linea di credito da oltre 6 miliardi garantita all’ottanta per cento dal nuovo istituto della garanzia Sace introdotto dal cosiddetto decreto “Liquidità” di questo aprile è assurda. Lo è perché sembra essere una dimostrazione tangibile che le misure varate per dare liquidità al sistema produttivo possono avere un effetto davvero positivo e concreto. Tutto è sempre migliorabile, certo, ma 6 miliardi di nuova finanza alla filiera dell’auto sono tanti e questa è un’ottima notizia per l’Italia. Ed è assurda perché l’indotto, ormai ex mono cliente Fiat, costituisce un asset industriale di competenze fondamentale per il nostro paese

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L’indotto ex Fiat è, infatti, oggi fornitore di svariate case produttrici, essendosi negli ultimi vent’anni profondamente emancipato dal gruppo Fca, giocando ruoli spesso strategici nelle catene di fornitura di moltissimi altri produttori e costituendo uno dei principali pilastri su cui poggia l’integrazione economica fra paesi dell’Ue. Il tema della sede fiscale e legale di Fca Group, oggi in Olanda e Inghilterra, è un tema e ci torniamo più avanti, ma non c'entra nulla con l’auspicabilissimo accordo fra governo e gruppo Fca per una linea di credito che aiuti Fca Italy a completare gli investimenti in Italia (magari facendone di nuovi) e permetta di gestire in modo fluido e ordinato i pagamenti all’intera catena di fornitura e subfornitura (anche) di Fca con effetti positivi a cascata sull’intero settore dell’automotive che necessita a causa delle conseguenze economiche del Covid-19, e quindi oggi non domani, di una forte azione di supporto pubblico.

 

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Come è noto, il lockdown ha fatto crollare mercato e produzioni (le immatricolazioni in Italia sono sprofondate a marzo e ad aprile a percentuali vicine al 90 per cento) con effetti non facili da prevedere e forse perduranti per anni. In più il settore si trova nel mezzo di un complesso guado tecnologico e anche per questo ha la necessità – imposta dalle nuove regole europee sulle emissioni climalteranti – di rivedere in chiave elettrica e ibrida molte motorizzazioni e molti modelli. Un passaggio che comporta già oggi un cospicuo impegno finanziario su nuovi piani di investimento per la trasformazione dei processi produttivi e la riorganizzazione, a monte, della catena di fornitura e sub fornitura a monte e, a valle, della rete dei servizi post vendita. Il tutto condito dai cambiamenti nella domanda di mobilità dove l’acquisto e il possesso di una autovettura sembrava – pre Covid – aver perso il significato di un tempo anche per mezzo dello sviluppo di servizi di mobilità condivisa e del renting automobilistico con effetti perduranti sul parco circolante.

 

Cosa succederà in futuro e quanto sarà forte l’impatto di lungo periodo del Covid è difficile dirlo, ma certo l’indotto auto italiano per poter partecipare alla competizione della mobilità del futuro deve essere vivo. Altrimenti per fare un dispetto a Fca, distruggiamo il know how costruito in cento anni di industria dell’auto. Insomma come italiani rischiamo di fare la figura degli stupidi secondo la perfetta definizione coniata da Carlo Cipolla in merito ai cretini: coloro i quali per fare del male agli altri lo fanno anche a loro stessi.

 

Tra l’altro il recente accordo Fca-Psa, confermato anche dopo la tempesta Covid, è un primo significativo esempio di come molti grandi produttori saranno spinti verso un progressivo consolidamento di mercato anche attraverso operazioni di acquisizione e fusione. Le ripercussioni su dimensione, localizzazione e articolazione dei siti produttivi legati all’auto e ovviamente sui conseguenti assorbimenti occupazionali non tarderanno a dispiegarsi. 

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Ci sarà una competizione tostissima tra stati, anche all’interno dell’Unione europea, per tenere le produzioni in patria. L’Italia ha dalla sua una qualità delle imprese nell’automotive straordinaria, basta pensare a cosa ha fatto Brembo in questi decenni, ma per il comparto avere risorse finanziarie costituisce una variabile chiave. Nei prossimi anni bisognerà stare al passo con la trasformazione tecnologica per mantenere un vantaggio competitivo sostenibile. E quindi la garanzia Sace prevista dal decreto “Liquidità” è solo il primo passo, l’uso della garanzia pubblica a livello nazionale e a livello europeo (anche tramite gli interventi della Bei e del nuovo fondo Invest Eu) deve essere uno strumento di politica industriale da utilizzare con maggiore apertura e flessibilità.

 

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Passiamo adesso al tema della sede legale e fiscale di Fca e partiamo da una premessa. All’interno della Ue la libertà di stabilimento, cioè la libera scelta per le imprese su dove stabilire la propria sede, è una libertà garantita dai trattati. Violare questa libertà farebbe partire una procedura di infrazione contro l’Italia. E’ evidente, quindi, come non sia questa la strada per mantenere in Italia con i c.d. headquarter di Fca o di altri.

 

La strada è riformare l’Italia, portando avanti politiche pro business. Come riconosciuto anche dal primo ministro Giuseppe Conte, a proposito della polemica nata sul caso Fca-Sace, bisogna creare condizioni di diritto societario e fiscale più attraenti in Italia. Siamo d’accordissimo. Il governo Conte, però, potrebbe fare molto di più. Nei provvedimenti finora adottati non si vede un progetto organico di policy in grado di rendere il nostro paese più competitivo nell’attrazione di imprese e talenti. Lo abbiamo già scritto recentemente (il Foglio 11 e 22 aprile 2020) in campo fiscale, oltre a riformare la giustizia tributaria e favorire una vera autonomia all’Agenzia delle entrate, si devono predisporre incentivi fiscali che supportino quelle imprese che decidano di trasferire in Italia attività produttive che in precedenza venivano svolte in stati extra Ue (il cd. Reshoring) e si dovrebbe accompagnare questa misura con una norma che definisca gli effetti fiscali delle operazioni di riorganizzazione aziendale che comportano l’ingresso in Italia di attività produttive precedentemente svolte all’estero.

 

Bisogna avere il coraggio, anche in Italia, di introdurre provvedimenti volti a garantire la stabilità del sistema tributario nel tempo e, in tal modo, a favorire gli investimenti e la crescita economica del paese. Si deve ragionare su veri e propri “accordi di stabilità” per garantire l’applicazione di una certa normativa fiscale per un determinato periodo di tempo per dare garanzia ai contribuenti che eseguono nuovi investimenti o rimpatriano in Italia attività produttive o si trasferiscono in Italia provenendo dall’estero.

 

Solo con politiche fiscali intelligenti potremmo evitare di farci prendere per fessi da quei paesi che in questi anni hanno saputo usare la leva fiscale e societaria per attrarre le holding di molte nostre imprese. Lasciamo da parte le polemiche inutili. Non servono a nulla e perdiamo tempo.

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