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Si scrive Mes, si legge euro

Lorenzo Bini Smaghi

Eliminare il Mes vuol dire rendere più probabile l’uscita di un paese dall’Eurozona in caso di crisi. E chi fa finta di niente è complice di un disegno pericoloso. È ora di svegliarsi

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Non è facile capire perché il Mes – acronimo per Meccanismo europeo di stabilità – sia diventato un tema di dibattito così acceso in Italia, non solo tra le varie forze politiche ma anche nei talk-show televisivi e sui social media. Forse c’è in ballo qualcosa di più fondamentale di un semplice meccanismo finanziario.

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Non è facile capire perché il Mes – acronimo per Meccanismo europeo di stabilità – sia diventato un tema di dibattito così acceso in Italia, non solo tra le varie forze politiche ma anche nei talk-show televisivi e sui social media. Forse c’è in ballo qualcosa di più fondamentale di un semplice meccanismo finanziario.

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Un primo indizio in tal senso viene dal fatto che a schierarsi contro il Mes siano oggi dei partiti e degli esponenti politici che in passato avevano svolto un ruolo attivo nella sua creazione. Vale la pena ricordare che la decisione dei capi di stato e di governo dei paesi europei di istituire “un meccanismo permanente per salvaguardare la stabilità finanziaria nell’area dell’euro”, in sostituzione del Fondo salva stati creato qualche mese prima, risale all’ottobre 2010. Il governo italiano di quel periodo, presieduto da Silvio Berlusconi, era sostenuto da partiti ed era composto da eminenti ministri che sembrano aver cambiato parere.

 

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L’avversione al Mes appare altrettanto sorprendente per un paese come l’Italia, che non ha mai fatto ricorso al Meccanismo. Al contrario, i paesi che hanno ricevuto prestiti dal Mes, come la Spagna, il Portogallo, la Grecia, l’Irlanda e Cipro, sono a favore della riforma del Mes discussa nel corso del 2018-19 (tuttora sospesa per il veto dell’Italia) e dell’istituzione di una nuova linea di credito sanitaria, che verrà discussa in occasione del Consiglio europeo del 23 Aprile. A meno di ritenere che questi paesi siano affetti da una sorta di sindrome di Stoccolma, che li rende psicologicamente dipendenti dai loro creditori, è il caso di capire meglio come mai chi ha avuto l’esperienza concreta del Mes non condivide la posizione negativa dell’Italia.

 

L’argomento principale degli oppositori del Mes è che esso eroga prestiti in cambio di condizioni e di garanzie. “Il Mes è fatto per mettere il cappio al collo dell’Italia” è lo slogan che circola in questi giorni. E ancora: “Il Mes è un furto, significa una patrimoniale, un debito sulle spalle dei nostri figli, più lavoro precario, l’aumento dell’età pensionabile”.

In effetti, è bene precisare che il Mes – il cui capitale è detenuto dagli stati membri dell’area dell’euro – non eroga trasferimenti a fondo perduto, bensì prestiti. E come sanno anche i cittadini che vanno in banca a chiedere uno scoperto bancario, un mutuo o un prestito per comprare una macchina o una lavatrice, qualsiasi prestito comporta delle condizioni. Anche gli stati, o le aziende, che emettono titoli di debito, devono sottoscrivere una serie di condizioni, tra cui la scadenza, ossia la durata del prestito, il tasso d’interesse e le garanzie. Queste condizioni sono peraltro strettamente legate tra di loro. Più lunga è la scadenza del prestito, più elevato è il rischio e, pertanto, più alto sarà il tasso d’interesse. Meno garanzie vengono presentate dal creditore, più elevato sarà il rischio e dunque più alto sarà il tasso d’interesse.

 

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I prestiti erogati dal Mes sono vantaggiosi quando i tassi d’interesse sui titoli di stato aumentano su livelli insostenibili, per la paura degli investitori che i titoli non vengano pienamente rimborsati oppure vengano rimborsati in una valuta diversa dall’euro. I prestiti del Mes, concessi a tassi più bassi di quelli di mercato, vengono accompagnati da un programma di risanamento finanziario concordato con il Consiglio dei ministri europei, mirato ad assicurare che il paese possa ripagare entro la scadenza prevista e finanziarsi nuovamente sul mercato. Dal 2012, l’accesso al Mes consente (condizione necessaria, non sufficiente) di beneficiare dell’intervento potenzialmente illimitato da parte della Banca centrale europea – il cosidetto Outright Monetary Transaction (Omt) – in acquisto di titoli di stato, per evitare una divergenza eccessiva dei tassi d’interesse.

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La decisione di ricorrere ai prestiti del Mes è dei singoli paesi. Un paese può decidere se farvi ricorso o meno in base alle proprie valutazioni, riguardo al tasso d’interesse e al costo, in particolare politico, di concordare un programma di aggiustamento per risolvere i suoi problemi interni.

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In questi anni i paesi europei hanno fatto scelte diverse. Nel 2012 la Spagna decise di far ricorso al (precursore del) Mes per finanziare la ristrutturazione del proprio sistema bancario, con un programma e una condizionalità limitati, prima che entrassero in vigore le nuove regole sui salvataggi bancari (il cosidetto bail-in). L’Italia decise invece di non ricorrere al Mes, e di fare da sola, nonostante le proprie banche avessero una percentuale di sofferenze simile a quelle spagnole.

 

Nel complesso, cinque paesi hanno fatto ricorso ai finanziamenti del Mes, o del suo precursore. Quattro di questi – Spagna, Portogallo, Irlanda e Cipro – sono usciti dalla precedente crisi in condizioni migliori dell’Italia, rimborsando addirittura in anticipo i loro prestiti. Nel 2019 questi paesi avevano riportato il loro reddito nazionale su un livello superiore a quello precedente alla crisi, mentre quello italiano era ancora inferiore. Nei sei anni precedenti al coronavirus, l’Italia è cresciuta complessivamente del 5 per cento, contro il 17 per cento della Spagna, il 13 per cento del Portogallo, e il 21 per cento di Cipro. Questi paesi hanno peraltro ridotto il loro debito pubblico e pagano ogni anno meno interessi dell’Italia.

 

La Grecia rappresenta una eccezione, un caso a parte. La crisi greca è scoppiata quando non c’era ancora né il Mes, né il suo precursore. Il Fondo salva stati fu creato proprio per far fronte al fabbisogno della Grecia, salito oltre il 15 per cento del pil dopo che il precedente governo aveva truccato i conti pubblici per vincere le elezioni. Nell’arco del programma sono stati erogati alla Grecia oltre 300 miliardi di euro, quasi il doppio del Prodotto nazionale, con scadenza fino a 40 anni e tassi d’interesse nettamente inferiori al mercato. Per effetto di questo intervento, la Grecia paga ogni anno un onere sul proprio debito inferiore a quello italiano, in rapporto al pil.

Il programma di aggiustamento della Grecia è stato particolarmente restrittivo e ha determinato una forte contrazione del reddito, con conseguenze sulla stabilità finanziaria, l’occupazione, la coesione sociale. Avrebbe potuto essere più graduale e meglio diluito nel tempo, con un contributo più tempestivo e più importante degli investitori privati. Ciò avrebbe richiesto un contributo ancor più ampio di fondi pubblici da parte degli altri paesi.

 

Va ricordato, al riguardo, che tutte le decisioni concernenti il programma greco, dal maggio 2010 fino al 2018, sono state prese dal Consiglio dei ministri europei, con la partecipazione dei ministri dell’Economia italiani che si sono succeduti in quel periodo, di centrodestra, di centrosinistra e del governo tecnico Monti. Non risulta che i governi italiani si siano opposti ai programmi di aggiustamento della Grecia, abbiano proposto soluzioni alternative o offerto fondi aggiuntivi a favore della Grecia.

L’esperienza greca rappresenta un caso unico, che non costituisce un precedente né un punto di riferimento per le attività del Mes, presenti o future, come confermano peraltro gli altri quattro casi di successo. Valutare la possibile futura condizionalità del Mes in base all’esperienza della Grecia significa non solo ignorare i fatti ma far prova di cattiva fede.

 

Come ricordato sopra, il Meccanismo di stabilità è a disposizione degli stati membri. Ciò si applica anche alla nuova Covid facility creata dal Mes per affrontare l’emergenza sanitaria, che dovrebbe prevedere l’erogazione di una linea di credito, per un ammontare pari al 2 per cento del Prodotto lordo di un paese, a un tasso d’interesse allineato a quello del miglior creditore (con un rating pari alla tripla A) più una commissione. La linea di credito sarebbe disponibile per i prossimi due anni, con una scadenza del prestito ancora da definire, presumibilmente dai 5 e i 10 anni. In base ai dati di metà aprile, il costo di questa facility, per una scadenza a 10 anni, sarebbe di circa lo 0,4 per cento. L’alternativa, per finanziare le stesse spese, di emettere titoli di stato italiani con la stessa scadenza comporterebbe un costo di circa l’1,8 per cento. Far ricorso al Mes consente pertanto di ottenere un risparmio di circa 140 punti, che applicati ai circa 40 miliardi significa un risparmio di 560 milioni all’anno, oltre 5 miliardi per l’intero periodo. Qualcuno ha commentato che si tratta di pochi spiccioli; forse non ha fatto il calcolo di quante mascherine e quanti respiratori si potrebbero acquistare con tale cifra.

 

Il paese deve dunque valutare se sia utile o meno usufruire di un tale risparmio, rispetto ad eventuali svantaggi di fare la domanda al Mes. Ciò richiede una valutazione, anche politica, delle condizioni che verranno poste per accedere al prestito. Da quanto è emerso finora dal negoziato, che si dovrebbe concludere questa settimana, l’unica condizione, uguale per tutti i paesi, per accedere a tale prestito sarà quella di utilizzare i proventi per interventi “direttamente o indirettamente” collegati alla crisi sanitaria. Non ci saranno condizioni macroeconomiche, ex ante o ex post, come ha chiarito nella sua intervista al Corriere della Sera di domenica scorsa, Klaus Regling, direttore generale del Mes.

Alcuni sembrano ancora dubitarne. Avremo la risposta tra qualche giorno.

 

Su queste basi, appare comunque difficile capire l’avversione pregiudiziale nei confronti del Mes. Se la scelta di far ricorso al Mes è lasciata a ciascuno stato membro, e se la scelta dipende da una valutazione dei relativi vantaggi e svantaggi, perché privarsi di una tale possibilità, a prescindere? E perché privare gli altri paesi di tale opzione? Perché dire pubblicamente “mai il Mes”, visto peraltro che l’Italia non l’ha usato fino ad ora?

Una spiegazione possibile è che il ruolo naturale dell’opposizione sia quello di opporsi a qualsiasi proposta fatta dal governo. In questo caso, c’è tuttavia da chiedersi che interesse ci possa essere nel mettere in difficoltà la posizione negoziale del presidente del Consiglio prima di una riunione europea.

 

Una spiegazione alternativa è che l’opposizione al Mes non è di natura tattica, ma fondamentalmente strategica. In effetti, è utile ricordare che il Mes costituisce un elemento portante dell’unione monetaria europea. Come si è potuto verificare negli ultimi anni, la permanenza di vari paesi all’interno dell’area dell’euro sarebbe a rischio senza i finanziamenti del Mes. Senza questi finanziamenti, uno stato che perde l’accesso al mercato non ha altra scelta che ristrutturare il proprio debito, mettere restrizioni sui risparmi dei propri cittadini e in ultima istanza uscire dall’euro. Senza il Mes, la Bce non potrebbe intervenire per acquistare senza limiti titoli di stato del paese per evitare un aumento insostenibile dello spread.

In sintesi, senza il Mes l’integrità dell’area dell’euro è a rischio. Eliminare il Mes significa tornare alla situazione pre 2010. Significa rendere più probabile l’uscita di un paese in caso di crisi. E’ talmente evidente che nessun altro paese europeo condivide l’avversione al Mes.

 

Perché, allora, vari partiti ed esponenti politici italiani chiedono la fine del Mes, e pretendono che l’Italia si impegni pubblicamente a non farne mai uso?

Una tale posizione può sembrare assurda. Rappresenta, di sicuro, una strategia suicida se l’intenzione è quella di rimanere nell’area dell’euro. Non è, tuttavia, una strategia suicida se l’obiettivo ultimo è proprio quello di far uscire l’Italia dall’euro. Anzi, potrebbe essere il modo migliore per raggiungere il risultato.

 

In effetti, se si ponesse direttamente ai cittadini italiani la questione della partecipazione dell’Italia all’area dell’euro, non ci sarebbe probabilmente oggi una maggioranza favorevole all’uscita dall’unione monetaria. I sondaggi mostrano che oltre i due terzi degli italiani sono a favore della moneta unica. Prendere il problema di petto non sembra essere una strategia politicamente intelligente.

Una via alternativa per conseguire l’uscita dell’Italia dall’euro è quella di rendere l’evento inevitabile, “facendosi buttare fuori”, oppure eliminando qualsiasi meccanismo di difesa, come il Mes. L’uscita dall’euro non sarebbe così una “decisione italiana”, presa in modo esplicito dal governo, ma una scelta degli altri paesi europei, che non avrebbero gli strumenti per aiutare l’Italia. Senza il Mes, ossia senza la possibilità di usufruire di prestiti a bassi tassi d’interesse, condizionati a politiche di risanamento, non ci sarebbe modo di evitare l’uscita dell’Italia dall’euro. Senza il Mes, la Bce non potrebbe mettere in atto il “whatever it takes” per salvare l’Italia.

 

A quel punto, vista l’incapacità dell’Unione di tenere l’Italia nell’euro, l’unica possibilità rimasta sarebbe il ritorno alla lira. Stampando la propria moneta sarebbe possibile finanziare qualsiasi livello di debito pubblico. Fuori dall’Unione sarebbe possibile emettere titoli di debito pubblico patriottici, magari perpetui, acquistati dai risparmiatori italiani in assenza di alternative perché costretti dai controlli sui movimenti di capitali. Si ripeterebbe lo scenario dei “gloriosi anni Settanta”, quando la Banca d’Italia finanziava direttamente il Tesoro, a tassi d’interesse nettamente più bassi dell’inflazione, e le banche dovevano detenere nei loro bilanci una quota prestabilita di titoli di stato. Una strategia di politica economica nota in inglese col nome di “financial repression”, che in italiano si potrebbe tradurre in “esproprio finanziario” per i risparmiatori.

 

Non si tratta di un processo alle intenzioni. Ci si può, in effetti, sorprendere per le ripetute, mai pienamente smentite, dichiarazioni anti euro di alcuni esponenti politici. Si può sorridere leggendo i ben dettagliati “piani B” su come organizzare l’uscita dall’euro. Ci si può interrogare sulla reale motivazione di proposte di legge per favorire la transizione alla nuova moneta, come quelle dei mini-bot. Non si può però rimanere indifferenti di fronte al voto della settimana scorsa al Parlamento europeo, insieme ad altri partiti euroscettici olandesi o tedeschi, non solo contro il Mes ma anche contro versioni più avanzate di finanziamento comune di cui potrebbe beneficiare l’Italia. Non sono fatti isolati, scollegati tra di loro. Fanno parte di una strategia chiara, mirata a far uscire l’Italia dall’euro e dall’Unione europea.

Se ne sono oramai accorti in molti; di sicuro gli investitori internazionali, come emerge chiaramente dall’aumento dei tassi d’interesse sui titoli di stato registrato negli ultimi mesi, di circa 100 punti. Lo spread è salito pericolosamente, non solo rispetto ai titoli di stato tedeschi ma anche a quelli spagnoli e portoghesi. Oltre al Covid-19, il sistema economico rischia di soffrire di un nuovo virus che si è insinuato nella politica italiana, che deriva dall’ambiguità sull’appartenenza all’area dell’euro. A pagarne il prezzo sono i contribuenti, i risparmiatori, le imprese italiane.

Chi fa finta di non accorgersene, diventa complice.

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