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Virtù, vizi e gran lezioni. Le crisi come specchio degli italiani

Elsa Fornero

C’è un filo che collega la crisi del 2008 e quella del 2020 e quel filo è sempre il debito. Quando è giusto spendere e quando no

 

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In poco più che un decennio l’economia mondiale e, per conseguenza, quella italiana, sono state investite da crisi gravi ed inattese, ben diverse dal normale andamento congiunturale, che vede, in modo abbastanza prevedibile, fasi recessive (in genere della durata di pochi trimestri) alternarsi a fasi espansive (in genere della durata di qualche anno). Le crisi inattese, invece, per definizione, non sono né previste né preannunciate. 

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In poco più che un decennio l’economia mondiale e, per conseguenza, quella italiana, sono state investite da crisi gravi ed inattese, ben diverse dal normale andamento congiunturale, che vede, in modo abbastanza prevedibile, fasi recessive (in genere della durata di pochi trimestri) alternarsi a fasi espansive (in genere della durata di qualche anno). Le crisi inattese, invece, per definizione, non sono né previste né preannunciate. 

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Sono state accomunate ai “cigni neri”, rarissimi a vedersi, ed è vero che due eventi devastanti a distanza ravvicinata (quella del 2008-09 e l’attuale “crisi da Coronavirus”) possono ben definirsi un unicum, almeno dal secondo dopoguerra.

 

Naturalmente, accostare la pandemia del Covid19 alla crisi finanziaria del 2008 può sembrare improprio, perché la salute viene prima di tutto, ma è sulla diversa percezione della crisi da parte dell’opinione pubblica e dei media che vale la pena di soffermarsi. Le percezioni – come stiamo tutti imparando – possono avere ripercussioni rilevanti sulla realtà e almeno in parte determinarne l’evoluzione futura. Per conseguenza, pur essendo importante ribadire che il primo obiettivo nella lotta al virus rimane la tutela della salute, nessuno può trascurare che gli effetti sull’economia e sul benessere delle famiglie potranno rivelarsi ben più catastrofici di quelli provocati dalla crisi finanziaria del 2008.

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Se il carattere globale e sistemico delle due crisi è innegabile (e inevitabile in un mondo globalizzato), l’Italia è stata però particolarmente colpita in entrambe le occasioni. Sulle ragioni per le quali il Coronavirus abbia investito l’Italia prima e, per ora, più violentemente degli altri paesi avanzati non sembrano esservi al momento spiegazioni condivise. Dal punto di vista economico, invece, è la debolezza strutturale della nostra economia a determinarne la maggiore vulnerabilità. E questa debolezza strutturale, pur presente sin dall’Unità, si è certo acuita da qualche decennio.

 

Ne sono indicatori significativi: la maggiore caduta e la ben più lenta ripresa del nostro PIL dall’inizio della crisi del 2008 (ancora oggi non abbiamo recuperato il valore pre-crisi); il ristagno del prodotto per addetto; la marcata frammentazione del nostro apparato produttivo, dove prevalgono le imprese di piccole e medie dimensioni, molto brave nella manifattura ma poco presenti nei settori tecnologicamente più avanzati; l’elevato tasso di disoccupazione, particolarmente tra i giovani, destinatari di lavori precari e spesso al di fuori sia del mondo del lavoro, sia da percorsi formativi; l’aumento della povertà, soprattutto tra le famiglie giovani; una popolazione in rapido invecchiamento, con il numero dei decessi superiore, da qualche anno, al numero dei nuovi nati; una spesa pubblica sbilanciata sulla componente pensionistica; un debito pubblico particolarmente elevato (in rapporto al valore della produzione) e sistematicamente in ascesa negli ultimi anni, con la conseguenza di uno spread elevato e sensibile a ogni notizia anche solo lontanamente negativa.

 

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Di fronte alla crisi finanziaria, la ricetta ortodossa (invocata soprattutto dalle grandi istituzioni economiche internazionali) prevedeva, per i paesi maggiormente colpiti, “riforme, riforme e ancora riforme”, un termine ripetuto ossessivamente, come un mantra: riforme del mercato del lavoro per aumentarne la flessibilità; dei sistemi pensionistici per limitare l’impatto dell’invecchiamento sulla spesa e liberare risorse da destinare ad altri impieghi; dei mercati dei beni e servizi per ridurne le “imperfezioni”, aumentarne la competitività e, attraverso una riduzione dei prezzi, incrementare il potere d’acquisto dei salari; delle amministrazioni pubbliche, a partire dalla burocrazia e dal sistema giudiziario, anche per favorire gli investimenti delle imprese; della scuola per migliorarne la performance e ridurre il gap tra il sistema educativo e il mondo del lavoro.

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Tutte queste riforme, tese a rafforzare il sistema economico, implicano sacrifici nel breve termine in vista di un (peraltro sempre incerto) aumento del benessere futuro e di un riequilibrio, a favore dei giovani, dei rapporti economici tra generazioni, perché a ciò mira la riduzione di un debito pubblico. Esse avrebbero dovuto essere accompagnate, perciò, da politiche di redistribuzione a favore dei segmenti più deboli della popolazione, un aspetto che fu sottovalutato nelle politiche tese a evitare la crisi del debito sovrano.

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Complessivamente si è trattato di riforme sicuramente migliorabili ma con un senso di direzione chiaro e mirato al medio periodo in un’economia di mercato. Si è però anche trattato di un “pacchetto” troppo tecnico, troppo razionale, calato dall’alto e incapace di generare un benché minimo senso di empatia tra i diretti interessati.

Inoltre, quella crisi avrebbe potuto rappresentare l’occasione per affermare una nuova e forte visione unitaria, almeno a livello Europeo, basata non soltanto su ricette economiche astrattamente solide ma anche su una forte sensibilità sociale e un vero dialogo con la cittadinanza. L’assenza di questi presupposti e l’indisponibilità dei governi nazionali a cedere parte della loro sovranità hanno permesso agli istinti “sovranisti” di affermarsi e di generare una contrapposizione tra una propagandata tutela degli interessi nazionali, con relativa maggior capacità di ascolto delle paure e delle esigenze individuali, e un distante e lontano internazionalismo, rivelatosi poco coraggioso e non all’altezza della sfida.

 

E infatti la percezione, anche da parte dei media, fu negativa, all’insegna di un sentimento collettivo di esasperazione e rabbia crescenti. E a quella stagione di riforme, che avrebbe potuto rappresentare l’inizio di un percorso di ricostruzione del paese, compiuto da governi politici, fece seguito la stagione del populismo che mise in discussione la stessa crisi all’origine delle riforme, in favore di scenari “complottisti” orditi da paesi nemici dell’Italia e messi in atto da “servi” degli stessi Paesi (i “tecnici”).

 

Oggi la percezione del nuovo “cigno nero” è nettamente diversa, forse perché sono chiamati in causa i nostri valori e i fondamenti stessi della vita individuale e sociale prima e ben più dei nostri conti bancari. Oggi c’è dolore, non rabbia, il dolore che accompagna la malattia dei nostri cari, di amici e conoscenti ai quali non possiamo dare neppure l’ultimo saluto per l’impossibilità di partecipare ai funerali. Un dolore che partecipa dello sforzo immane dei medici e di tutto il personale sanitario. Abbiamo paura per noi e per loro, proviamo ammirazione e gratitudine nei loro confronti. E questa volta non manca empatia nei confronti delle misure del governo, al posto della “ribellione” e della ricerca di “capri espiatori” tipiche del populismo. Oggi i cittadini sono consci dello sforzo di salvataggio del Paese mentre allora non lo compresero e ancor meno lo sostennero e la ricerca di una “nuova direzione” per il Paese naufragò nell’incomprensione e nel risentimento.

 

Queste diverse percezioni, e i diversi comportamenti che ne conseguirono allora e ne conseguono oggi, non possono discendere solo del fatto che lo sforzo fu allora di ridurre la spesa pubblica e il debito dello stato mentre oggi le misure adottate dal governo aumenteranno, e di molto, l’una e l’altro. E’ naturale che sia così, visto che allora il rischio era una paralisi dello Stato per mancanza di fondi mentre oggi è una paralisi del Paese indotta dalla necessità di contenere la pandemia ed è giusto che lo stato adotti la logica del “whatever it takes” (peraltro spendendo bene le risorse che arriveranno dal nuovo debito, destinandole in larga misura a investimenti in ricerca, innovazione, capitale umano e fisico, infrastrutture). E non può essere neppure il fatto che allora l’Europa chiedeva restrizioni/austerità mentre oggi dice, per bocca della Presidente VdL, “daremo all’Italia tutto quanto l’Italia ci chiederà”, sostanzialmente congelando (se non mandando in soffitta) il patto di stabilità.

 

Non si può non riconoscere in questa diversità di atteggiamento degli italiani un senso civico e un amor di Patria che allora mancarono, forse per una intrinseca difficoltà dei tecnici di comunicare con empatia o per l’oggettiva difficoltà del ragionamento economico di suscitare condivisione, o perché soffocati dalla veemenza e dall’aggressività accusatoria dei populisti (poi premiati dagli elettori fino ad arrivare al governo). “Numeretti” contro sentimenti, vincoli contro diritti.

 

Le crisi economiche acuiscono in genere la diffidenza nei confronti degli economisti e dello Stato. Ho sperimentato spesso questa contrapposizione tra “cittadini buoni” ed esperti “cattivi” in moltissime trasmissioni televisive nelle quali si sono affrontati, uno dopo l’altro, i problemi da cui molti italiani sono afflitti senza cercare una soluzione d’insieme. E ciascuno, dal proprio punto di vista, ha molte buone ragioni per chiedere un aiuto, una tutela, una protezione. Il difficile, in un paese in declino, è conciliare tutte le richieste, in sé legittime o almeno ragionevoli, con le risorse disponibili. Oggi i vincoli di bilancio arretrano di fronte alla virulenza di un nemico sconosciuto ma presente ovunque. Oggi si deve spendere: per la salute, per difendere i redditi di chi perde – si spera solo temporaneamente – il lavoro (non importa se dipendente o autonomo); per sostenere le imprese, senza le quali non v’è occupazione, né crescita.

 

Siccome il debito pubblico, che ha turbato i nostri sonni e la nostra capacità di crescere per molti anni, oggi passa in seconda fila dietro al Coronavirus, gli italiani si sentono più uniti, si possono persino identificare con lo Stato quando fa sentire “protetto” il Paese; possono comprendere, come mai in passato, che le imposte forzatamente pagate servono anche a sostenere quella sanità pubblica alla quale affidiamo oggi la nostra vita. E quella scuola che oggi manca ai nostri figli e nipoti. E quelle forze dell’ordine che vigilano affinché tutti cooperino al contenimento del virus.

Bisognerà riuscire a non sprecare questo senso di condivisione che percorre tutto il Paese e porta i cittadini a cantare spontaneamente l’inno nazionale dai ballatoi delle loro abitazioni. Forse solo su di esso sarà possibile far leva per imboccare quella nuova direzione di progresso civile, economico e culturale che il Paese, in modo non sempre lineare, sta da tempo cercando.

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