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Salvare l’economia dalla repubblica dei pm

Claudio Cerasa

I successi del Jobs Act. Il dopo art. 18. Il boom sul lavoro. Il disastro Ilva. Il futuro di BpB. Cinque storie ci ricordano che gli ostacoli che rendono difficile la crescita si rimuovono limitando i poteri di supplenza delle procure (occhio alla prescrizione)

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Cambiano gli esecutivi, cambiano le maggioranze, cambiano i ministri, cambiano i premier, cambiano le manovre ma alla fine la scelta di fronte alla quale si ritrovano periodicamente i partiti che tentano di governare l’economia del nostro paese è sempre la stessa: una politica con la testa sulle spalle deve assecondare o deve respingere la via giudiziaria alla crescita economica? Negli ultimi giorni ci sono almeno cinque notizie gustose che ci ricordano perché la politica interessata a rimuovere gli ostacoli che rendono difficile la crescita è quella che tenta in tutti i modi di limitare i poteri di supplenza della nostra magistratura. La prima è doppia ed è relativa ad alcuni numeri sul lavoro. Da una parte ci sono i dati positivi sugli occupati, che a novembre del 2019, ha detto ieri l’Istat, sono cresciuti di 41 mila unità rispetto al mese precedente portando il tasso di occupazione al valore più alto mai registrato dall’inizio delle serie storiche: 59,4 per cento, che in valori numerici si traduce in 23 milioni e 486 mila occupati. In molti ieri hanno tentato di attribuirsi i meriti di questo boom ma è sufficiente osservare il grafico storico sull’occupazione offerto dall’Istat per notare che la crescita dell’occupazione ha cominciato ad accelerare nel 2015 ai tempi del Jobs Act (governo Renzi).

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Cambiano gli esecutivi, cambiano le maggioranze, cambiano i ministri, cambiano i premier, cambiano le manovre ma alla fine la scelta di fronte alla quale si ritrovano periodicamente i partiti che tentano di governare l’economia del nostro paese è sempre la stessa: una politica con la testa sulle spalle deve assecondare o deve respingere la via giudiziaria alla crescita economica? Negli ultimi giorni ci sono almeno cinque notizie gustose che ci ricordano perché la politica interessata a rimuovere gli ostacoli che rendono difficile la crescita è quella che tenta in tutti i modi di limitare i poteri di supplenza della nostra magistratura. La prima è doppia ed è relativa ad alcuni numeri sul lavoro. Da una parte ci sono i dati positivi sugli occupati, che a novembre del 2019, ha detto ieri l’Istat, sono cresciuti di 41 mila unità rispetto al mese precedente portando il tasso di occupazione al valore più alto mai registrato dall’inizio delle serie storiche: 59,4 per cento, che in valori numerici si traduce in 23 milioni e 486 mila occupati. In molti ieri hanno tentato di attribuirsi i meriti di questo boom ma è sufficiente osservare il grafico storico sull’occupazione offerto dall’Istat per notare che la crescita dell’occupazione ha cominciato ad accelerare nel 2015 ai tempi del Jobs Act (governo Renzi).

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Il Jobs Act, come molti ricorderanno, andò a rimuovere l’articolo 18, introdusse il contratto a tutele crescenti e tolse potere contrattuale alla magistratura abolendo il reintegro giudiziario in caso di licenziamento per motivi economici. Si disse che quella riforma avrebbe creato molti disastri, sia in termini di occupazione sia in termini di licenziamenti. Ma anche sul secondo punto le cose non sono andate come previsto dagli apocalittici.

 

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E come riportato ieri sul Corriere della Sera da Enrico Marro, i dati dell’Inps esposti nell’Osservatorio sul precariato dicono che il tasso di licenziamento calcolato rispetto all’occupazione esposta al rischio a inizio anno è costantemente calato: dal 6,5 per cento nel 2014 al 6,1 per cento nel 2015, al 5,5 per cento nel 2016, al 5,3 per cento nel 2017 (nel 2018 i licenziamenti sono stati in tutto, per motivi economici e per motivi disciplinari, 790.826 contro gli 870.078 del 2017 e il calo è continuato anche nei primi nove mesi del 2019: 557.455 contro 583.667 dello stesso periodo del 2018). Sintesi: togliere potere ai magistrati, in termini di politiche del lavoro, restituendolo agli imprenditori ha ridotto i licenziamenti e fatto aumentare i posti di lavoro.

 

Lo stesso principio si sarebbe forse potuto applicare se non fosse stata delegata alla magistratura la gestione della politica industriale sul caso Ilva. ArcelorMittal, notizia numero tre, è stata portata alla fuga dall’Italia nel momento in cui la politica ha tolto di mezzo lo scudo penale voluto dai commissari dell’Ilva per evitare aggressioni giudiziarie nei confronti dei nuovi proprietari di Ilva. E lo stesso dissesto dell’Ilva, in fondo, è arrivato dopo lo tsunami giudiziario che ha intrappolato la famiglia Riva, che, notizia numero quattro, prima di essere accusata ingiustamente di bancarotta (Fabio Riva, unico della famiglia ad aver resistito alla tentazione di patteggiare, a luglio è stato assolto) aveva investito quattro miliardi tra misure ambientali e di ammodernamento (la bancarotta è arrivata dopo l’intervento della magistratura, e con la gestione commissariale). Le crisi industriali si possono risolvere con più facilità nei paesi che accettano di non dare alle procure strumenti utili per portare avanti le politiche industriali per via giudiziaria. E lo stesso ragionamento, notizia numero cinque, si potrebbe fare per un’altra storia che si trova a metà tra la cronaca economica e la cronaca giudiziaria. Ieri la vicedirettrice generale di Bankitalia, Alessandra Perrazzelli, in un’audizione alla commissione Finanze della Camera, ha detto che nell’accordo-quadro sottoscritto per la ristrutturazione e il rilancio della Banca popolare di Bari, oggi commissariata, vi è anche la trasformazione di BpB in spa, “un passaggio cruciale che deve avvenire in tempi molto stretti”.

  

Come molti lettori ricorderanno, all’origine del disastro della Banca popolare di Bari vi è una scelta particolare, avallata dalla politica locale, che notoriamente ha delegato il potere di rappresentanza a un magistrato di nome Michele Emiliano, per non applicare la riforma che nel 2015 – c’era ancora il governo Renzi – spinse le banche popolari a diventare spa. A quei tempi, tra le dieci banche coinvolte nella riforma, otto completarono con successo la trasformazione, dando vita a istituti importanti come il Banco Bpm. Due invece si affidarono alla giustizia amministrativa per non applicare la riforma, ottenendo nel 2016 un parere positivo dal Consiglio di stato (che bloccò la trasformazione) che venne poi ribaltato dalla Consulta nel 2018. Risultato ottenuto dal management (e dalla politica) che ha scelto di contrapporre alla via della crescita la via giudiziaria: il collasso della banca.

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Cambiano gli esecutivi, cambiano le maggioranze, cambiano i ministri, cambiano i premier, cambiano le manovre ma alla fine il risultato non cambia: una politica che vuole fare di tutto per rimuovere gli ostacoli alla crescita è una politica che cerca di fare di tutto per non tenere l’economia di un paese in ostaggio della supplenza giudiziaria. E non ci vuole molto a capire purtroppo da che parte stia un governo che dovendo fare di tutto per ridare slancio all’Italia non trova nulla di meglio da fare che lasciare entrare in vigore una legge che abolendo la prescrizione mette un paese intero in ostaggio di processi senza fine.

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