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Nemmeno i sindacati credono al taglio delle ore di lavoro per decreto

Barbara D’Amico

Cgil, Cisl e Uil devono fare i conti la realtà: perché si possa anche solo parlare di riduzione del tempo di occupazione, l’occupazione serve prima crearla

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Torino. Molto rumore per nulla. Come in Finlandia non esiste un impegno del governo per ridurre l’orario di lavoro, così in Italia non c’è nessuna seria intenzione di ritoccare al ribasso le 40 ore settimanali mantenendo invariata la busta paga. E questo a dispetto di alcune esternazioni comparse negli ultimi giorni sugli organi di stampa – tra cui quella del sindacalista e studioso della Cgil Agostino Megale che difende l’idea della settimana di 32 ore e annessa crescita di produttività – e persino di un disegno di legge a firma Cinque stelle fermo alla Camera dal 2017.

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Torino. Molto rumore per nulla. Come in Finlandia non esiste un impegno del governo per ridurre l’orario di lavoro, così in Italia non c’è nessuna seria intenzione di ritoccare al ribasso le 40 ore settimanali mantenendo invariata la busta paga. E questo a dispetto di alcune esternazioni comparse negli ultimi giorni sugli organi di stampa – tra cui quella del sindacalista e studioso della Cgil Agostino Megale che difende l’idea della settimana di 32 ore e annessa crescita di produttività – e persino di un disegno di legge a firma Cinque stelle fermo alla Camera dal 2017.

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Posizioni ridimensionate, se non smentite, proprio dalle principali sigle sindacali, costrette a fare i conti con la realtà. Una realtà che dice più o meno questo: perché si possa anche solo parlare di riduzione del tempo di occupazione, l’occupazione serve prima crearla. “Quando si parla di orari di lavoro non esiste una ricetta univoca e tantomeno è possibile intervenire con una legge che tratti la riduzione in modo uguale, con l’accetta”, spiega al Foglio il vice-segretario generale Cgil Vincenzo Colla, criticando ogni velleità di intervento nazional-popolare sull’orario di impiego. Certo, i sindacati non disdegnano l’idea di un ritocco ma secondo Colla “bisogna agire a livello di contrattazione, settore per settore. E questo per ragioni di contesto. In Italia una riduzione dell’orario può esserci solo laddove vi sia prima un incremento di produttività e questo incremento possiamo attuarlo solo attraverso innovazione e investimenti”. Innovazione e investimenti crollati durante la crisi, periodo in cui abbiamo bruciato circa 1,8 miliardi di ore di lavoro.

 

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Che occorra agire a livello di politica industriale, con rilancio della produttività, e non sul taglio tout court delle ore di lavoro lo sostiene anche il segretario Uil Carmelo Barbagallo che è anche più duro nella critica alla proposta di Megale. “In quella proposta si parla di utilizzazione dell’impianto produttivo in azienda al 100 per cento attraverso più assunzioni. Ma è sbagliato. Non si può utilizzare mai l’impianto al 100 per cento, perché c’è un problema di manutenzione ordinaria e straordinaria di cui tener conto. Invece di ridurre l’orario, bisogna regolare la trasformazione del mondo del lavoro. A questo dovrebbe servire una legge”. Posizione condivisa anche dalla Cisl che, attraverso una lettera aperta della segretaria generale Annamaria Furlan al Messaggero – a commento della non-proposta finlandese –, ha fatto sapere che non esiste legge che da sola possa creare un “progresso fisiologico” e che “il salario e l’organizzazione del lavoro non sono variabili indipendenti delle dinamiche economiche”.

 

Modi diversi per dire la stessa cosa: la settimana corta, per ora, possiamo scordarcela perché mancano quelle condizioni che in altri paesi hanno preparato il terreno per riduzioni progressive del tempo in azienda, attuate raramente per mano statale (vedi il caso della Germania in cui è il sindacato IG Metall, non il governo, ad aver introdotto nelle imprese che hanno accettato l’accordo la riduzione soggettiva del monte ore, modulando il salario senza lasciarlo invariato).

 

I sindacati difendono il loro potere rappresentativo e dissentono sul lasciare al Parlamento l’ultima parola su un tema così eterogeneo e capillare. Ma per riformare le regole del lavoro, oltre che prerogative servono proposte e soluzioni. Le stesse che Giovanni Agnelli suggeriva discutendo con Luigi Einaudi: “Ad un tratto [...] uno o parecchi uomini di genio inventano qualcosa; e noi industriali facciamo a chi arriva prima ad applicare la o le invenzioni le quali promettono risparmio di lavoro e maggior guadagno. Quando le nuove applicazioni si siano generalizzate, risulta che con 75 milioni di uomini si compie il lavoro il quale prima ne richiedeva 100”. E quale soluzione a questa stortura? “Ridurre le ore lavorate da 800 a 600 mantenendo invariate le paghe”, suggeriva Agnelli, senza dimenticare il presupposto dell’investimento in innovazione. Era il gennaio del 1933. La ricetta è sempre valida, bisognerebbe applicarla.

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