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Prova a prendermi

Ugo Bertone

La spettacolare fuga nipponica di Carlos Ghosn, da re dell’automobile a ricercato speciale. I passaporti, il contrabbasso, la giustizia a orologeria

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Sembra un film. Forse diventerà un film. E’ la storia, ben lungi dall’epilogo, di Carlos Ghosn, già re mondiale dell’auto alla guida sia di Nissan che di Renault (nonché di Mitsubishi), oggi al centro del più seducente intrigo della finanza internazionale di sempre, in cui non manca nessun ingrediente per un buon giallo, compresa una protagonista di gran temperamento, la signora Carole, seconda moglie del moderno Papillon, che ha probabilmente avuto un ruolo chiave nella fuga del secolo.

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Sembra un film. Forse diventerà un film. E’ la storia, ben lungi dall’epilogo, di Carlos Ghosn, già re mondiale dell’auto alla guida sia di Nissan che di Renault (nonché di Mitsubishi), oggi al centro del più seducente intrigo della finanza internazionale di sempre, in cui non manca nessun ingrediente per un buon giallo, compresa una protagonista di gran temperamento, la signora Carole, seconda moglie del moderno Papillon, che ha probabilmente avuto un ruolo chiave nella fuga del secolo.

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Si è incontrato più volte nei mesi scorsi, nella sua prigione dorata di Tokyo, con un produttore di Hollywood, John Lesher

Il condizionale è d’obbligo, perché tanti solo ancora i lati oscuri del clamoroso affaire che Ghosn, narcisista in cerca di una riabilitazione, vorrebbe tradurre in un film. Almeno questa è l’intenzione che emerge dalle ultime rivelazioni, stavolta a cura del New York Times: Ghosn si è incontrato più volte nei mesi scorsi, nella sua prigione dorata di Tokyo, con un produttore di Hollywood, John Lesher, vincitore di un Oscar con “Birdman”, per mettere a punto un copione sulle sue disavventure giudiziarie in Giappone. Quasi un remake del conte di Montecristo cui però mancava, fino a pochi giorni fa, la scena madre: la fuga spettacolare dal Sol Levante al Libano, passando da Istanbul.

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Una beffa che ha coperto di ridicolo la polizia giapponese e che, da sola, potrebbe meritare un set da premio Oscar. Almeno se saranno confermate le rivelazioni all’agenzia Kyodo di Imad Ajami, un amico del manager. Ghosn, secondo il teste, sarebbe fuggito dalla sua prigione principesca (a un passo dalla casa di Masayoshi Son, l’uomo più ricco del Giappone) nascosto dentro la custodia di uno degli strumenti musicali degli artisti che avevano tenuto per lui un concerto privato. La preziosa cassa, sfuggita all’esame dei poliziotti e della security di Nissan, sarebbe stata poi imbarcata su un volo privato in un aeroporto secondario usando uno dei passaporti (francese, libanese e brasiliano) che era sfuggito al sequestro.

 

Già mercoledì 8 gennaio, l’ex numero uno dell’auto mondiale potrà raccontare al mondo il suo j’accuse in una conferenza stampa

Un giallo? “Mica tanto – confessa l’amico – è pacifico che un manager come lui che viaggia spesso nei paesi arabi ma anche in Israele, dispone di più di un documento”. Pacifico, ma non per la polizia giapponese che, livida di rabbia, in questi giorni ha passato al setaccio ogni possibile traccia alla ricerca dei complici. Oltre ad attivare l’Interpol alla ricerca di un’improbabile rivincita. Il Libano, infatti, non concederà mai l’estradizione di Ghosn in Giappone, paese con cui non esiste un accordo in merito. Del resto Beirut non ha mai dato il benestare alla consegna di Kozo Okamoto, un terrorista dell’Armata Rossa, gruppuscolo che negli anni Ottanta ha seminato il terrore al servizio di potenze mediorientali. Non si vede perché oggi debba consegnare un manager assai ammirato da una buona fetta dell’opinione pubblica libanese, che addirittura potrebbe accarezzare l’idea di concorrere alla presidenza della Repubblica. Certo, il Libano va comunque a un uomo così ambizioso, che conta amici (e nemici) potenti un po’ ovunque, Sud America compreso. Ma il governo francese ha già fatto sapere che “non estraderà” Ghosn, che ha anche la cittadinanza francese, se dovesse arrivare nel paese. “La Francia non estrada mai i suoi cittadini” ha detto il viceministro all’Economia Agnes Pannier-Runacher. Insomma, Ghosn l’ha fatta franca e Tokyo deve accontentarsi del sequestro della cauzione, 12,3 milioni di euro, stabilita al momento dell’arresto. Ma un conto è la vicenda penale, altro è il giudizio morale in attesa di quello della storia. O del mondo finanziario perché uomini come Ghosn in pensione non ci vanno mai. E allora fioccano le domande: la sua fu vera gloria?

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Si tratta di un nuovo Dreyfus, vittima delle trame del nazionalismo giapponese, che mal sopportava la leadership di un manager occidentale, sacrificato sull’onda del sovranismo? Oppure Ghosn si è rivelato un manager avido, incapace di distinguere tra il proprio borsellino ed il portafoglio delle aziende da lui guidato e spremute come bancomat al servizio della sua grandeur personale? Non occorreva attendere granché per un primo confronto pubblico su Carlos Ghosn.

 

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Già mercoledì 8 gennaio, l’ex numero uno dell’auto mondiale, disarcionato potrà raccontare al mondo il suo j’accuse in una conferenza stampa che si annuncia memorabile. Racconterà le ragioni della sua scelta che, ha già fatto sapere, è maturata alla vigilia di Natale quando si è convinto, dopo un meeting tra inquirenti e avvocati difensori, che la giustizia giapponese, ben poco attenta ai diritti dell’imputato, l’avrebbe sottoposto a una sorta di supplizio a fuoco lento, prima della scontata condanna. Al suo fianco ci sarà probabilmente Carole, l’eroina che Carlos il libanese ha sposato in seconde nozze, nel 2016, alla Reggia di Versailles, una sceneggiatura del genere, insomma, non l’avrebbe saputa immaginare nemmeno quel genio di Alexandre Dumas. Anche se in questo feuilleton c’è un particolare che stona.

 

Il primo lavoro alla Michelin, il colosso dei pneumatici in cui lavorerà per 18 anni con ottimi risultati. Poi la Nissan

Il conto delle nozze, celebrate nel giorno del sessantesimo compleanno del manager, venne girato a Renault e Nissan come spesa di rappresentanza per i 15 anni dell’alleanza: un salasso da 635 mila euro, spesi per festeggiare l’apoteosi del manager che a Parigi come a Tokyo si era fatto la fama di tagliatore di costi. Per non parlare delle accuse più gravi: l’aver usato 14,7 milioni di euro per “ringraziare” un amico saudita che aveva coperto sue perdite personali dopo il crack di Lehman Brothers; o di aver fatto transitare presso una concessionaria saudita di Renault bonus non dovuti, così creando un tesoretto personale poi usato per vari progetti, dal finanziamento di un fondo hi tech guidato dal figlio all’acquisto di uno yacht per la famiglia. Oltre ad altre contestazioni legate al tenore di vita di re Carlos che, ironia della sorte, a Beirut risiede in una villa da Mille e una notte intestata a Nissan. Non c’è alcun dubbio che questo aneddoto, assieme a tanti altri che riguardano la carriera di Carlos Ghosn, terranno banco in quello che s’annuncia un evento mediatico ghiotto, a metà strada tra la cronaca e il giallo, in cui si mescolano scontri di culture e di religioni, con l’ovvio ricamo sui servizi segreti di Francia e Turchia e la via Crucis degli ingenui 007 giapponesi. Senza dimenticare la posta in gioco sul terreno industriale, visto che dietro l’affaire c’è il primo gruppo mondiale, quel conglomerato Nissan-Renault-Mitsubishi che nel 2019 ha sfornato 10,5 milioni di vetture. Anche per questo, come nei grandi romanzi d’appendice, vale la pena di presentare di seguire una storia così vera da apparire fasulla.

 

Cominciamo dall’inizio, cioè dalle prime peripezie di Carlos, classe 1954, nato a Porto Velho nel cuore del Brasile, da papà Jorge, figlio di un emigrato libanese di stirpe maronita e di una nigeriana, pure lei con passaporto libanese (oltre che brasiliano). E qui, all’età di due anni, Carlos vive un’avventura dal sapore biblico. Il bambino rischia la pelle per aver bevuto acqua sporca, ma se la cava. La mamma, però, decide che la terra della gomma e del caucciù, da cui deriva la ricchezza della famiglia, non fa per i bambini. Di qui la decisione di far le valigie alla volta di Beirut dove Carlos, a partire dai sei fino ai 16 anni, frequenterà l’istituto di Notre Dame de Jamhour tenuto dai gesuiti. E’ un passaggio chiave nella formazione di Ghosn, cresciuto nella comunità maronita che ancor oggi rappresenta la base del suo consenso nel Paese dei Cedri, maturato ancor prima che la diaspora palestinese facesse sprofondare nella guerra civile quella che era la Svizzera del medio oriente.

 

Nato a Porto Velho nel cuore del Brasile, le scuole dei gesuiti a Beirut, in quella che era la Svizzera del medio oriente

Anche in tempi recenti Ghosn ha manifestato l’idea di scendere in campo per la successione del presidente Michel Aoun che, notizia non confermata, l’ha ricevuto dopo la sua fuga dal Giappone. E’ un’idea suggestiva, sull’onda della popolarità raccolta dal manager, ma probabilmente non realizzabile: è bastata la voce, si legge sul Monde, perché l’opinione pubblica si spaccasse in due, tra favorevoli e contrari. E di tutto può aver bisogno il Libano, salvo che di un altro motivo di contrasto. Ma non era certo questa l’ambizione di Ghosn quando, a 16 anni, varca a Parigi la soglia del liceo Stanislas, la palestra per preparare l’ammissione al Louis le Grand, la grande scuola per eccellenza dove si formano gli allievi dell’Ecole des Mines, lo snodo più prestigioso della classe dirigente transalpina da dove il giovane inizierà la sua scalata verso il potere. La prima tappa? Michelin, il colosso dei pneumatici in cui lavorerà per 18 anni con ottimi risultati, compresa la fusione con Uniroyal Goodyear, da cui nascerà il primo produttore mondiale.

 

A questo punto, anno 1996, il manager è pronto per un salto di qualità. L’occasione gliela fornisce Renault, impiombata nell’alleanza sui camion con Volvo che tinge di profondo rosso i conti della Régie. Per la prima volta Ghosn mette in pratica la sua ricetta preferita: il taglio dei costi, a partire dal personale ma abbinato a una rivoluzione dei prodotti. La formula funziona, al punto che Renault torna in utile prima del previsto per esser poi ceduto al gruppo svedese che girerà al partner il 20 per cento della nuova società, all’epoca la seconda al mondo. Grandi imprese, cero, ma poca roba per le ambizioni di Ghosn. Quando, a marzo 1999, il manager viene scelto da Parigi per tentare il risanamento di Nissan, il gruppo giapponese a un passo dalla bancarotta, non sono in pochi in Francia ad augurarsi che l’impresa finisca in un flop, così ridimensionando un personaggio ingombrante e scomodo, che però non si tira indietro, nonostante lo scetticismo generale – del resto motivato dai conti in rosso e dai costi esorbitanti a fronte delle vendite in sofferenza. “Mi piacciono le sfide – commenta Ghosn davanti ai giornalisti giapponesi – servono a mantenersi giovane e a non trasformarsi in un passacarte”. Non correrà questo rischio.

 

Nel giro di tre anni Nissan cambia volto sotto la spinta di un terremoto che non finisce mai. Ghosn, che minaccia di licenziare tutti i dirigenti, infrange la regola del posto a vita, chiude cinque stabilimenti e riduce del 14 per cento i dipendenti, fa saltare le gerarchie interne e così via. Un’operazione difficile, anzi temeraria – tanto che per timore di ritorsioni da parte della yakuza, la mafia giapponese, consiglia ai vigilanti di isolare il piano della direzione. Ma Nissan rivede l’utile dopo solo un anno di questa cura feroce mentre Ghosn diventa un eroe popolare. Per due anni, tra il 2001 e il 2002, il manager diventa il protagonista di un manga popolare soprattutto tra i ragazzi che lo eleggono a mito: l’uomo che dorme sì e no cinque ore per notte e si sveglia prima dell’alba. Un duro, soprattutto con sé stesso che rivendica per il capo “il 100 per cento di libertà di agire e il 100 per cento di responsabilità per ciò che fa”.

 

Viene spontaneo accostare la sua figura a quella di Sergio Marchionne, per le evidenti analogie per i risultati ottenuti in condizioni estreme, grazie ad una determinazione fuori dal comune. Ma si rischia di sbagliare di grosso. I due, infatti, si sono sempre cordialmente detestati, senza nascondere il sentimento reciproco. “E’ un meccanico che ha una sola tuta” ebbe a dire di superSergio il manager franco libanese. “Non mi avvicino al Re Sole neanche con gli occhiali”, ironizzava il numero uno di Fiat.

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