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L’egemonia populista

Fabio Sabatini

Perché in politica economica le intenzioni dei rossogialli sanno tanto di déjà vu

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La nuova maggioranza nasce con poche idee molto confuse, ma un orientamento di politica economica apparentemente condiviso e assai simile a quello del governo gialloverde. Il 10 agosto, nell’intervista che di fatto ha avviato “la trattativa”, Matteo Renzi sottolineava l’urgenza di scongiurare l’aumento dell’Iva, se possibile mediante un governo tecnico che risparmiasse ai suoi sostenitori la responsabilità politica di una manovra lacrime e sangue. Successivamente, tra i parlamentari democratici si è fatta strada l’idea di un accordo di legislatura che aprisse una nuova stagione di riforme condivise, tra cui l’ennesima revisione della legge elettorale. Le dichiarazioni dei leader democratici, tuttavia, hanno sistematicamente trascurato la necessità di evitare non solo l’aumento dell’Iva, ma anche la procedura di infrazione. Mentre per raggiungere il primo obiettivo “bastano” 23 miliardi, per conseguire anche il secondo ne servono almeno 35, secondo le stime.

 

Raggiunto lo scopo di rinviare le elezioni, Renzi si è sfilato dalla trattativa. La parola “Iva” è passata in secondo piano e sono iniziate le contrapposizioni sulle persone – i nomi del presidente del consiglio, dei suoi vice, dei ministri, dei dirigenti della Rai – e il dibattito surreale sul ruolo di Casaleggio e della piattaforma Rousseau. Il cenno più esplicito e articolato alle intenzioni programmatiche del Pd si trova in un post di Zingaretti su Facebook del 30 agosto. I punti di Zingaretti possono essere riassunti così: taglio delle tasse sui salari medio bassi, rilancio degli investimenti pubblici, incentivi agli investimenti privati, specie quelli “green” e in automazione, “rilancio della politica sull’economia digitale” (difficile capire cosa significhi), formazione gratuita dall’asilo all’università per le famiglie povere, investimento di 10 miliardi e “nuova stagione di assunzioni” nella sanità pubblica, investimenti nella sicurezza urbana. Propositi molto generici e in parte facilmente condivisibili, con una caratteristica in comune: richiedono soldi, tanti soldi. Non solo nessuno nel Pd ha spiegato dove trovare i 35 miliardi che servono per scongiurare l’aumento dell’Iva nel rispetto dei vincoli fiscali europei, ma si propongono nuove spese per decine di miliardi. Anche in questo caso senza spiegare come finanziarle. I 20 punti dei 5 stelle diffusi il 30 agosto, naturalmente, non sono da meno. Alcune riforme, per lo più dannose (il taglio dei parlamentari, al primo punto, è una misura priva di qualsiasi significato che vada oltre la propaganda), e soprattutto nuova spesa senza limiti e nessuna preoccupazione su come finanziarla, sulla falsariga dei 13 mesi di governo con la Lega. Come prevedibile, il “programma di governo” risultante dai propositi improvvisati dei due partiti è poco più che una somma delle generose intenzioni di spesa di entrambi (con qualche sbilanciamento a favore dei 20 punti dei 5 stelle, decisamente più organici dei post su Facebook degli esponenti del Pd). Si torna, nel programma, opportunamente a parlare di “neutralizzazione dell’aumento dell’Iva”, cui si aggiungono incentivi agli investimenti privati, aumento delle risorse per la scuola, per l’università, per la ricerca e per il welfare, riduzione delle tasse sul lavoro, introduzione del salario minimo, politiche di welfare per i giovani, piano di edilizia residenziale pubblica, ricostruzione delle aree terremotate, interventi a favore dell’industria 4.0 e delle piccole e medie imprese e, per concludere, un “piano straordinario di investimenti per la crescita e il lavoro al sud, anche attraverso il rafforzamento dell’azione della banca pubblica per gli investimenti”. Coerentemente con l’atteggiamento mostrato fin qui dai due partiti della nuova maggioranza, nel programma non c’è neanche l’ombra di misure per coprire le enormi spese vecchie e nuove.

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Come finanziarle dunque? Il Pd si troverà a un bivio. Stracciare sia i generici punti di Zingaretti sia i buoni propositi del programma, e raccogliere 35 miliardi tra nuove tasse e minori spese per finanziare le prebende gialloverdi. Prendere sulle proprie spalle la responsabilità politica della manovra “lacrime e sangue” – specie attraverso il nuovo ministro dell’Economia Roberto Gualtieri –, con conseguente suicidio elettorale al prossimo giro. Oppure finanziare le spese vecchie e nuove in deficit. Superare la soglia del 3 per cento e avviare il debito su una traiettoria pericolosa, a dispetto dei vincoli europei (che non sono i capricci di un sadico ma servono, appunto, a garantire la sostenibilità del debito, scongiurare crisi finanziarie e preservare l’accesso ai mercati internazionali per il finanziamento della spesa in deficit). Tutto lascia pensare che sarà preferita la seconda via.

 

Al punto 2 del “programma”, si legge: “Il governo si adopererà per promuovere le modifiche necessarie a superare l’eccessiva rigidità dei vincoli europei”. La speranza è che, indipendentemente da una difficile revisione dei patti fiscali, con l’allontanamento di Salvini dai palazzi del potere, la Commissione europea ci ritenga maggiormente degni di fiducia e voglia concederci una certa flessibilità. E’ una strategia rischiosa: si tenta di perseguire le stesse identiche strategie proposte dagli “economisti” di Salvini (spendere ad libitum in deficit ignorando i problemi di sostenibilità del debito e pretendendo di negoziare eccezioni ai vincoli europei), contando sul fatto che stavolta tali strategie funzioneranno in virtù di una sostanziale differenza antropologica rispetto al governo precedente. Ora, è probabile che l’Europa si comporti in modo più “morbido” nei confronti di un governo meno irresponsabile e pericoloso. Inoltre, è vero che l’allentamento del rischio di “ridenominazione” del nostro debito (in una valuta inferiore, cioè la lira) garantirà margini di manovra più ampi. Ma tali condizioni non rendono meno sconsiderata una politica economica basata su spese in parte definite estemporaneamente, nel tempo necessario a scrivere un post su Facebook, e in parte inique (si veda per esempio quota 100)  senza alcuna preoccupazione per il loro finanziamento, per la sostenibilità del debito e per il benessere delle generazioni future.

 

La verità è che dietro le intenzioni di spesa manifestate finora dai due partiti della nuova maggioranza non c’è una visione precisa del futuro del paese. Solo l’ansia di accaparrarsi un consenso effimero (l’esperienza del reddito di cittadinanza, la cui approvazione non ha scongiurato il crollo del M5s alle elezioni europee, dovrebbe insegnare qualcosa). Sia sul Pd sia sui 5 stelle aleggia lo spettro dell’impostazione di politica economica vaneggiante sdoganata dai ciarlatani no-euro, che si può riassumere così: se le cose si mettono male, sarà sempre possibile creare ricchezza dal nulla prendendola indefinitamente a prestito o, nella peggiore delle ipotesi, stampando moneta (lire, ovvio). Una volta di più si ha la sensazione di assistere a un’egemonia delle ricette populiste di politica economica, basate su una sorta di “principio di irresponsabilità”: ai costi, alla sostenibilità e al futuro penseranno quelli che verranno dopo; adesso conta solo il consenso. Effimero, va ricordato. Non si sconfigge il populismo appropriandosi delle sue ricette miracolose, usando le sue parole d’ordine e rivitalizzando i suoi interpreti più pericolosi. L’autoritarismo e il populismo – tratti che Salvini ha sempre avuto in comune coi 5 stelle – si sconfiggono costruendo una alternativa politica, a cominciare dalla politica economica

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Fabio Sabatini è professore di Politica Economica alla Sapienza Università di Roma

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