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Le imprese sono guardinghe per la prospettiva di un governo giallorosso

Alberto Brambilla

L’eurofilia può dare vitalità al tessuto produttivo ma non senza un programma di vera discontinuità

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Roma. Gli imprenditori suonano come campane stonate, non prendono posizione, nell’attesa di conoscere l’indirizzo di politica economica del governo Pd-M5s, di cui molti sottolineano comunque la contraddizione genetica per una coabitazione impossibile fino a un mese fa. Da quando Matteo Salvini ha interrotto l’esperienza del governo gialloverde, però, è stata eliminata un’alea esiziale per le imprese: la minaccia leghista dell’uscita dall’euro. Dopo il discorso in Senato con cui Giuseppe Conte ha dato le dimissioni da presidente del Consiglio, i leghisti Alberto Bagnai e Claudio Borghi sono tornati ad accusare gli “ascari di Bruxelles” e a dire che l’Italexit “sarebbe un bene per l’Italia”. Non sono rilanciati dalle agenzie stampa internazionali come prima e la normalizzazione dei rapporti con l’Europa ha ridimensionato lo spread, sceso ai livelli precedenti alle elezioni del 2018.

 

La prospettiva di un governo di coalizione Pd-M5s è favorita dai mercati perché il rischio elezioni lampo e la probabile insorgenza di un governo guidato dalla Lega sarebbero evitati. Benché sia una minaccia propagandistica, l’uscita dall’euro ha inguaiato la dialettica con la Commissione europea e i rapporti di vicinato con Francia e Germania: avere disinnescato un rischio può essere quanto meno motivo di sollievo per le imprese a ogni latitudine e di ogni dimensione perché l’Italia gialloverde era l’unico paese a farne una delle caratteristiche qualificanti dell’azione di governo. Uno spauracchio temuto a più riprese dalle associazioni di industriali come la Assolombarda.

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Una prospettiva, quella dell’Italexit, contemplata anche nei rapporti periodici delle agenzie di rating in quanto foriera di possibili declassamenti del merito di credito italiano con relativi aumenti dei costi di finanziamento per imprese pubbliche, di istituti di credito e di imprese private.

 

Il Pd ha messo tra i cinque punti per l’accordo con il M5s “l’appartenenza leale all’Unione europea”, il minimo necessario è che i grillini non tornino alle vecchie abitudini eurocontrarie, tra l’idea di monete parallele e ipotesi di assalti ai caveau di Banca d’Italia.

 

Gli imprenditori, in particolare quelli del nord, hanno ovviamente un legame nelle catene del valore molto stretto con i paesi europei, e in particolare con la Germania, quello che vorrebbero è una maggiore integrazione e non il contrario. Come ha correttamente sottolineato sulla Stampa il professore Giovanni Orsina dell’Università Luiss della Confindustria, il mondo produttivo del nord potrebbe essere sotto-rappresentato in un governo Pd-M5s con un baricentro molto spostato a sinistra e con un’appartenenza territoriale centro-meridionale. Non c’è però una omogeneità di vedute tra gli imprenditori, come non è omogenea la concentrazione di imprese che sono multidimensionali e con proiezioni internazionali diverse. Il professor Orsina ha rilevato il silenzio attuale degli imprenditori, in tacet perché temono di passare dalla padella dei gialloverdi alla brace dei giallorossi. E’ un rischio, nell’attesa di capire se un nuovo governo ripristinerà la possibilità di dispiegare investimenti domestici e di attirare capitali internazionali, dopo che si sono allontanati, e soprattutto aspettando di capire come risolverà questioni divisive, dall’alta velocità ferroviaria alla sopravvivenza dell’Ilva. Il silenzio degli imprenditori nella fase di consultazioni dei partiti con il Quirinale è però significativo anche per Salvini. L’ex vicepremier in Senato aveva elencato una serie di imprenditori del nord, e anche del sud, che l’avevano motivato a chiamare elezioni anticipate nella convinzione che il voto avrebbe premiato la Lega e ridotto ai minimi termini il M5s in Parlamento. Il silenzio attuale denota non solo il timore per quello che verrà ma, specularmente, fa sembrare che gli imprenditori non siano determinati a sostenerlo con la stessa forza polemica anche oggi. Possono credere allo choc fiscale promesso dal leader leghista, benché non ci siano le condizioni per abbassare le tasse attraverso un aumento del deficit, una manovra da 50 miliardi come quella vagheggiata da Salvini porterebbe il disavanzo in rapporto al pil al 5 per cento, sarebbe un’altra spinta euro-centrifuga implicita. Tuttavia un governo Pd-M5s non ha l’appoggio delle imprese del nord che restano guardinghe e dovrà guadagnarselo. Per assicurare la possibilità di programmare investimenti, condizione essenziale per guidare un’impresa, non basta l’eurofilia: serve un indirizzo economico di medio-lungo periodo. La coalizione di due partiti finora incompatibili dovrà dimostrare di garantirlo.

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