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La rivoluzione che serve all'Europa per promuovere la concorrenza

Giovanni Pitruzzella

Quando la competizione funziona e quando no. L’ex presidente dell’Antitrust spiega come può cambiare il fisco in Europa

Il presidente dell’Antitrust, Roberto Rustichelli, nella sua bella relazione al Parlamento ha insistito, in particolare, sulla relazione tra concorrenza, mercato comune e competizione fiscale tra stati. In questo modo sembra voler imprimere una precisa direzione alla politica della concorrenza: non solo enforcement antitrust, di cui ha pure messo in evidenza l’ampiezza che esso ha assunto, ma anche una forte azione di “advocacy” che supera la dimensione nazionale per investire l’azione dell’Unione europea. In questo modo viene dato un contributo concreto alla costruzione di quell’agenda di riforme dell’Unione che servono a rilanciare sia la sua legittimazione sia la sua capacità di offrire risposte all’altezza dei tempi in cui viviamo.

 


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Certamente esiste una stretta relazione tra concorrenza, mercato interno e disciplina fiscale. La tutela della concorrenza è, fin dalle origini dell’avventura europea, una parte fondamentale del diritto europeo e, tra le sue finalità, vi è sempre stata quella di concorrere alla costruzione di un unico mercato europeo, basato sulla libera circolazione delle merci, dei servizi, delle persone e dei capitali. Un mercato unico europeo che – è bene sottolinearlo – ha contribuito alla produzione di ricchezza, che è indispensabile per reggere la competizione globale e che oggi non viene messo in discussione da nessuno, neppure da quelle forze che hanno un atteggiamento critico nei confronti dell’Unione.

 

Solo che un mercato unico richiede un “level playing field”, cioè uno spazio economico in cui esistano regole giuridiche che consentono alle imprese di operare in tutti i paesi europei senza subire discriminazioni a seconda dello stato in cui hanno la loro sede e che consentano ai consumatori di scegliere beni e servizi in funzione di ciò che reputano risponda meglio ai loro interessi, indipendentemente dalla nazionalità dell’impresa che li offre. L’Europa si è sforzata di raggiungere questo obiettivo creando regole uniformi (talora anche eccessivamente uniformi), ma in materia fiscale questo processo è stato molto timido o è mancato del tutto. Piuttosto c’è stata una competizione fiscale tra stati che ha portato a molte divergenze nelle legislazioni fiscali dei diversi paesi, con due conseguenze importanti: un ostacolo alla realizzazione di quel “level playing field” che è indispensabile per la realizzazione del mercato interno e la trasformazione delle imprese multinazionali in soggetti che si muovo da un paese all’altro alla ricerca delle migliori opportunità di localizzazione; sono proprio questi contribuenti globali a mettere in competizione tra loro gli stati. Sempre più frequentemente il reddito viene concepito in un luogo e prodotto in un altro, mentre i profitti sono dirottati legalmente verso “subsidiaries” insediate in alcuni paesi europei che sono disposti a concordare con i contribuenti regimi fiscali di favore.

 

Si badi bene, in qualsiasi assetto federale (quindi al di fuori di uno stato centralista) e a maggior ragione in un’Unione sovranazionale, un certo grado di concorrenza fiscale è fisiologica (si pensi agli Stati Uniti), ma in certi casi c’è un abuso, e cioè una competizione del tutto patologica. Come quando grazie a certi ruling fiscali alcune multinazionali ottengono veri e propri privilegi in uno stato del tutto contrari ai principi della concorrenza. Contro queste pratiche la Commissione europea ha cominciato a reagire vigorosamente. Nel 2016 ha dichiarato contrari alle norme europee sul divieto di aiuti di stato i vantaggi fiscali concessi dall’Irlanda ad Apple dal 2003 al 2013, disponendo il recupero di una somma pari a 13 miliardi di euro oltre agli interessi. Ma già nel 2015 era intervenuta nei confronti di Fiat (Fca) e Starbucks che avevano ottenuto, rispettivamente da Lussemburgo e Olanda, generosi trattamenti fiscali. Nel 2016 la Commissione ha censurato il regime sugli utili in eccesso adottato in Belgio, dove 35 multinazionali sono state avvantaggiate rispetto alla concorrenza con un abbassamento della base imponibile molto rilevante, tra il 50 e il 90 per cento. Certo, per molte di queste decisioni bisognerà attendere che ci siano, da parte degli organi giurisdizionali competenti, i controlli dovuti per garantire la legalità, ma, al di là della singola decisione, gli esempi fatti mostrano una grande attenzione al tema da parte della Commissione e come proprio la disciplina sul divieto di aiuti di stato, nata per evitare che la concorrenza sia falsata da certi comportamenti degli stati, può essere uno strumento utile per rimuovere la patologia della concorrenza fiscale.

 

Il vero punto debole riguarda la ristrettezza degli interventi legislativi diretti ad armonizzare le legislazioni fiscali. Qui il vero ostacolo sta nella regola decisionale dell’unanimità che assicura a ciascuno stato un potere di veto sulle proposte della Commissione, che pure non sono mancate. A questo proposito va richiamata, in particolare, la proposta di direttiva su una “base imponibile comune consolidata” a livello Ue che porterebbe a una considerazione adeguata di redditi prodotti dalle multinazionali. Per questa ragione la Commissione, in una Comunicazione del gennaio 2019, ha proposto alcune interpretazioni dei Trattati che, in materia fiscale, porterebbero a un ridimensionamento della regola dell’unanimità. Ora la parola passa agli stati e alle forze politiche nel nuovo Parlamento europeo, e probabilmente anche alle sollecitazioni e alle proposte che verranno da Autorità antitrust vivaci come quella italiana.

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