Lo scorso anno in alcune stazioni era possibile vedere il contatore del debito dell'Istituto Bruno Leoni. Ora ha raggiunto i 2.373 miliardi (foto LaPresse)

Il doppio bluff sul futuro

Giampaolo Galli

Il partito del deficit inganna promettendo pasti gratis, ma fare debiti vuol dire tassare

[Pubblichiamo stralci del libro “Noi e lo stato. Siamo ancora sudditi?” (Ibl Libri, 2019) a cura di Serena Sileoni. Questo capitolo, dal titolo, “La grande illusione del debito pubblico” è dell’economista Giampaolo Galli. Il 2 giugno 1946, la maggioranza degli italiani votava per la Repubblica. La parola “sudditi”, presente per due volte nello Statuto albertino, sarebbe di lì a poco scomparsa, per lasciare spazio ai “cittadini” evocati per ben 33 volte nella Costituzione. La promessa di un agire libero e responsabile, da cittadini e non da sudditi, può dirsi oggi, dopo più di settant’anni, compiuta? Come già aveva fatto il libro “Sudditi” – pubblicato nel 2012 da Ibl Libri, a cura di Nicola Rossi – “Noi e lo stato” raccoglie esperienze di subalternità all’imperio e all’arbitrio dello stato. Studiosi, giornalisti e scrittori raccontano di attitudini, prassi e regole che mostrano una sorta di continuità tra il suddito dell’antico regime e il cittadino dello Stato democratico. Il libro indaga, attraverso le diverse prospettive degli autori, le ragioni di un rapporto asimmetrico e immaturo tra il cittadino e il potere pubblico, a partire da una nostra acerba vocazione alla libertà].


 

Emettere debito pubblico significa tassare: a ogni euro di debito emesso dallo stato corrisponde un euro (più gli interessi) di tasse aggiuntive che i contribuenti dovranno pagare in futuro. Questa semplice verità non è del tutto ovvia per la maggioranza dei contribuenti, che quindi preferiscono quasi sempre che lo stato finanzi le proprie spese emettendo debito anziché aumentando le tasse. Si dirà che è sempre meglio una tassa in un domani incerto che una tassa con certezza oggi. Ma questo a rigore non è vero, dal momento che la tassa di domani è una certezza, peraltro gravata dagli interessi. Gli economisti

L’interesse nazionale è meglio difeso da chi propone politiche di riduzione del debito e dunque della dipendenza dai mercati finanziari

generalmente concordano nel ritenere che il debito, preso in modiche dosi, possa essere utile in tempi di vacche magre, come ad esempio quando c’è da finanziare una guerra o da affrontare una grave crisi economica. Tuttavia, alla prova dei fatti il debito pubblico tende a crescere sia in tempi di vacche magre che in tempi di vacche grasse – tanto che in molti paesi il suo ammontare è giunto a superare quello dell’intero reddito nazionale prodotto in un anno. Lo straordinario successo che il debito pubblico sembra avere anche in tempi di pace e prosperità diffusa è dovuto essenzialmente a una forma di inganno: il contribuente non si rende conto che, prima o poi, a un maggior debito corrisponde una maggiore tassazione. Si tratta, in sostanza, di una delle tante forme che può assumere quella che Amilcare Puviani, un celebre studioso della scuola italiana di scienza delle finanze, definiva “illusione finanziaria”. In un saggio del 1903, Puviani elencava i molti modi attraverso cui lo stato occulta la vera natura delle operazioni che mette in atto. In qualche caso – per esempio quando si prepara per una guerra – lo stato può avere interesse a occultare la realtà di una maggiore spesa facendo comparire avanzi di bilancio. Altre volte, invece, può avere interesse a ridurre il debito, facendo però apparire che stanno aumentando le spese per il benessere dei cittadini. A riprova di quello che egli chiamava il “grande arruffo del nostro bilancio”, Puviani citava il fatto che “uomini eminenti come Minghetti e Cambrai-Digny hanno potuto cadere in errori di centinaia di milioni nel calcolare le condizioni della finanza. Più di recente, la Camera e il paese hanno potuto prestare la maggiore fiducia alle magiche esposizioni finanziarie che presentavano con un avanzo di bilancio, di cui il disavanzo doveva essere colmato con un debito di 1.630 milioni!”.

 

 

 

Oggi, grazie al controllo dei mercati finanziari e di analisti indipendenti, è più difficile falsificare i bilanci pubblici e, quando ciò accade, come avvenne in Grecia fino al 2010, la sanzione dei mercati può essere molto dura. Sono però tanti i modi in cui lo stato riesce a trarre in errore i cittadini circa la condizione reale della finanza pubblica. Quello più comune e diffuso, ormai un vero e proprio best seller, consiste nell’imporre nuove tasse con scadenza differita, ossia di emettere debito pubblico. Su questo punto – il debito come tassazione differita – vi è sostanziale consenso fra gli economisti. Ciò di cui si discute è se i contribuenti si accorgono o meno del fatto che si tratta di una forma di tassazione di quando un debito sia da considerarsi troppo elevato o insostenibile; e infine di quale sia il modo migliore di far fronte a un debito troppo elevato in rapporto al reddito nazionale.

 

La ragione per cui il debito è una forma di tassazione differita risiede nel fatto che, prima o poi, il debito deve essere ripagato, e che per ripagarlo lo stato deve estrarre risorse dal settore privato, il che si traduce in maggiore tassazione. Si consideri ad esempio il caso in cui lo stato decida di ridurre le tasse di 1.000 euro per ogni cittadino e di finanziare il mancato gettito emettendo un titolo che scade fra un anno e ha una cedola del 5 per cento. Fra un anno, lo stato dovrà pagare 1.050 euro a ogni detentore del titolo. Il che significa che ogni contribuente ottiene una riduzione di tasse di 1.000

Se i cittadini fossero consapevoli dei rischi fatali in caso di default, darebbero vita a un partito che ha per obiettivo la disciplina di bilancio

quest’anno e un aumento di 1.050 l’anno prossimo. Le due cifre sono ovviamente equivalenti in valore attuale. Si noti che nulla cambia se nel corso dell’anno muta la proprietà del titolo. Ad esempio, se tutti i titoli vengono acquistati da un unico ricco signore, lo stato dovrà pagare a questo signore 1.050 euro moltiplicato per la quantità di titoli in circolazione. E dato che il debito complessivo dello Stato non cambia quando il debito, o parte di esso, cambia di mano, ciascun contribuente continua a essere soggetto alla stessa tassazione di 1.050 euro fra un anno. Per chiarire ulteriormente le idee, può essere utile pensare a una piccola comunità, ad esempio un condominio. In un condominio, tutti i condòmini sono perfettamente consapevoli del fatto che le spese del condominio sono spese a carico dei condòmini, indipendentemente che siano finanziate con contributi condominiali o con debito. Questa stessa consapevolezza non esiste, o è molto più debole, quando si parla di una grande comunità come una nazione.

 

Se i contribuenti fossero consapevoli che emettere debito significa tassare, essi si opporrebbero all’emissione di debito come si oppongono a un aumento dell’accisa sulla birra o delle aliquote delle imposte sul reddito. Se poi fossero pienamente consapevoli dei rischi fatali a cui vanno incontro se lo stato fa default, essi darebbero vita a un partito che avrebbe come obiettivo la disciplina di bilancio. Se questo partito avesse successo, un paese come l’Italia si libererebbe di uno dei principali fattori che ne ostacolano la crescita economica: il macigno del debito pubblico. Poiché il debito è un onere per le future generazioni e queste non votano e non hanno voce in capitolo nelle decisioni di oggi, in quasi tutti i paesi vi sono delle regole, in genere di carattere costituzionale, che cercano di porre un argine alla tentazione dei politici e anche dei loro elettori di fare debiti. L’idea è che la generazione presente ha l’obbligo di lasciare alle generazioni future una nazione non troppo indebitata, così come ha l’obbligo di lasciare un ambiente non troppo inquinato o di non esaurire le risorse naturali del pianeta. Questo è ciò che si intende per crescita sostenibile, una crescita che possa essere mantenuta nel tempo perché non lascia eredità negative troppo pesanti alle future generazioni.

 

Il contribuente non si rende conto che a maggior debito corrisponde una maggiore tassazione e distrazione di risorse dal settore privato

Nell’area dell’euro, così come in tutti gli Stati federali, le regole hanno anche un’altra motivazione: quella di impedire che i problemi di un Paese o di una regione ricadano sugli altri. Da questo insieme di esigenze derivano le regole del Trattato di Maastricht e quelle successive del Patto di crescita e stabilità. Come in tutte le regole, esiste un margine di arbitrarietà. Esse possono probabilmente essere migliorate e anche semplificate, anche se è bene non dimenticare che le complicazioni che caratterizzano le regole attuali sono in gran parte figlie dei tentativi che sono stati fatti negli ultimi anni per renderle flessibili, superando l’eccessiva rigidità che ne caratterizzava le prime formulazioni. In ogni caso, una cosa è certa: possono forse essere migliorate, ma non possono certamente essere abolite. Noi italiani dovremmo abituarci ad applicare le regole che abbiamo contribuito a formulare e che abbiamo approvato. Comunque, dovremmo capire che l’Europa in fondo ci aiuta a fare ciò che noi dovremmo fare da soli, nel nostro interesse. Va di moda parlare di interesse nazionale e di sovranità nazionale. E sembra quasi che chi si preoccupa del debito pubblico faccia l’interesse dell’Europa o di qualche potentato straniero. Non è così naturalmente. Si può anzi affermare che è vero il contrario: l’Italia non sarà pienamente sovrana sinché avrà un enorme debito pubblico che la obbliga a dipendere dai mutevoli umori dei mercati finanziari. L’interesse nazionale è meglio difeso da chi propone politiche di riduzione del debito e dunque dalla dipendenza dai mercati finanziari. Il paradosso è che spesso proprio coloro che denunciano la perdita di sovranità dell’Italia a favore di presunti potentati, politici o finanziari, stranieri sono gli stessi che dicono che la spesa in disavanzo non è un problema, ma è anzi la soluzione del problema.

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