Luigi Di Maio (foto LaPresse)

Di Maio non ha capito (ancora) come funziona lo spread

Luciano Capone

Il vicepremier sostiene che l'aumento dei rendimenti dei titoli di stato italiani non sia costato nulla perché "il rendimento è a 10 anni...di che stiamo parlando?". Che sembra un po' il “Questo lo dice lei!” del sottosegretario Laura Castelli

Tutto il mondo, a partire dal ministro dell'Economia Giovanni Tria, si preoccupa del forte aumento dei rendimenti dei titoli di stato italiani, ma il vicepremier Luigi Di Maio tranquillizza tutti: l'incremento dello spread non costa nulla. “Dire che lo spread ci è già costato, quando invece il rendimento dei titoli è a 10 anni...di che stiamo parlando?”, risponde a un giornalista (Qui il video integrale con l'intervista a Repubblica).

 

 

Cosa intendesse dire il ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico non è ben chiaro. Forse è convinto che chi acquista Btp riceverà tutto, capitale e interessi, fra 10 anni? Non si sa, dovrebbe chiarire lui come ritiene funzionino i mercati finanziari e le aste di titoli di stato e magari spiegarlo alla Banca d'Italia, alla Commissione europea e al Mef che, invece, nei loro documenti ufficiali spiegano come l'aumento dello spread stia costando molti denari alle casse pubbliche e molti altri danni produce per l'economia, su famiglie imprese, attraverso il settore creditizio a causa del deterioramento dei bilanci delle banche.

  

“L’andamento dei rendimenti dei titoli pubblici ha implicazioni rilevanti per tutti i settori dell’economia – scrive la Banca d'Italia nel suo ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria –. Per le finanze pubbliche l’aumento dei tassi aggrava il costo del debito e rende più difficile la riduzione del rapporto tra debito e Pil. L’incremento dei tassi all’emissione dei titoli di Stato ha determinato negli ultimi sei mesi un’espansione della spesa per interessi di quasi 1,5 miliardi rispetto a quella che si sarebbe avuta con i tassi che i mercati si aspettavano in aprile; costerebbe oltre 5 miliardi nel 2019 e circa 9 nel 2020 se i tassi dovessero restare coerenti con le attuali aspettative dei mercati”. Quindi l'aumento dello spread, in soli sei mesi di governo, ci è già costato 1,5 miliardi.

  

“La sostenibilità di bilancio a lungo termine è stata inoltre ostacolata dall'aumento dei tassi di interesse sui titoli di Stato osservato nel 2018 e potrebbe peggiorare ulteriormente se i tassi di interesse reali dovessero aumentare più di quanto attualmente previsto – scrive la Commissione europea nella relazione che boccia la manovra italiana –. “Nel 2019 e nel 2020, si prevede che il notevole peggioramento dell'avanzo primario e l'aumento della spesa per interessi determineranno un ulteriore intralcio per la riduzione del debito”. Probabilmente Di Maio, nelle trattative per evitare la procedura d'infrazione, svelerà a Juncker che il deficit sarà più basso perché lo spread non conta. Ma è difficile immaginare che si possa raggiungere un accordo sulla base della DiMaionomics.

    

Anche perché il vicepremier dovrebbe convincere prima il suo ministro dell'Economia e quei cattivoni dei tecnici del Mef che – probabilmente per intralciare la strada del “governo del cambiamento” e sabotare la “manovra del popolo” – nella NaDef firmata da Tria e dal premier Conte scrivono chiaramente che l'aumento dello spread ci è costato un bel po' di soldi, facendo aumentare il costo del servizio del debito. “L’indebitamento netto della PA nel 2018 è ora stimato all’1,8 per cento del PIL, con una revisione al rialzo di 0,2 punti percentuali in confronto al DEF di aprile a motivo della minore crescita del PIL nominale e di oneri per interessi che sono rivisti al rialzo per poco più di 1,9 miliardi di euro (0,11 punti percentuali di pil)”. E l'impatto secondo il Mef si sentirà anche l'anno prossimo, proprio come sostengono Bankitalia e la Commissione europea e chiunque non abbia studiato sugli stessi libri di Di Maio: “In confronto al Def, la curva dei rendimenti ha subìto una traslazione verso l’alto che su alcune scadenze eccede un punto percentuale. Ciò spiega perché la spesa per interessi nel 2019 sia ora cifrata in 3,6 punti di PIL, contro i 3,5 del Def”.

  

  

Il “Di che stiamo parlando?” di Di Maio sembra un po' il “Questo lo dice lei!” del sottosegretario Laura Castelli. Ma cosa dicono loro e di cosa stanno parlando è il vero problema.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali