Il bluff privatizzazioni
Lo statalismo del governo rende le privatizzazioni una fake news. Per evitare le forche di Bruxelles, Tria improvvisa un bazar di stato. Peccato che la moda attuale sia nazionalizzare
Roma. Non è chiaro se il governo intenda prendere in giro le istituzioni europee o i cittadini italiani. Ma di certo sarà più difficile riuscirci con le prime che con i secondi. Nella lettera inviata a Bruxelles e nel documento programmatico di Bilancio (Dpb) rivisto resta tutto com’era, con il deficit al 2,4 per cento e la crescita sempre all’1,5 per cento, nonostante nessuno creda a una stima così ottimistica. L’unica novità è un grande piano di privatizzazioni da 18 miliardi, pari all’1 per cento del pil: “Al fine di accelerare la riduzione del rapporto debito/pil – c’è scritto nella lettera di Tria ai commissari Moscovici e Dombrovskis – il governo ha deciso di innalzare all’1 per cento del pil, per il 2019, l’obiettivo di privatizzazione del patrimonio pubblico”. Questa, secondo l’esecutivo italiano, dovrebbe essere la soluzione per evitare la procedura d’infrazione sulla violazione della regola del debito. Ma è una proposta che nessuno potrà prendere sul serio a Bruxelles, perché si tratta di numeri irrealistici e che non impattano sul deficit strutturale.
Promesse di questo tipo non hanno in genere influenza sulle valutazioni della Commissione, ma nel caso specifico sono ancora meno credibili perché dal punto di vista formale non sono accompagnate da un piano dettagliato e da un road map e da quello politico perché provengono da un governo che sta andando in direzione contraria, con progetti di nazionalizzazioni che sono già in fase avanzata.
L’annuncio di per sé improbabile di una nuova ondata di privatizzazioni, come non se ne vedono da una quindicina d’anni, è stato accompagnato da una dichiarazione del vicepremier Luigi Di Maio che ne ha smorzato ulteriormente la credibilità: “Non ci saranno dismissioni di gioielli di famiglia – ha dichiarato il leader del M5s –. Noi abbiamo previsto immobili, beni di secondaria importanza, ma se mi parlate di Eni, Enav, tutti questi soggetti non finiranno in mani private, devono rimanere saldamente nelle mani dello stato”. E d’altronde non può che essere così, vista l’impronta ideologica statalista e statalizzatrice di questo esecutivo. Ma se non si vendono i “gioielli di famiglia”, cioè le cose che hanno un valore e un mercato, come si pensa di ricavare in un anno 18 miliardi dalla vendita di “beni di secondaria importanza”?
Tra l’altro i cosiddetti “gioielli di famiglia”, e cioè le partecipazioni del Mef in società quotate e non come Enav, Enel, Eni, Leonardo, Monte dei Paschi, Poste, Rai, Ferrovie eccetera – sono le più semplici da mettere sul mercato in tempi rapidi. Mentre avviare un programma di dismissioni immobiliari implica un lavoro tecnico e amministrativo, con la costituzione di un fondo e il coinvolgimento degli enti locali e territoriali proprietari, che richiede diversi anni per l’attuazione. E’ quindi impossibile che il governo ci riesca in un anno ed è altamente improbabile che riesca a ricavare entrate di quel tipo. Tanto per fare un paragone, il piano di “Valorizzazione del patrimonio delle Amministrazioni Pubbliche” del 2011 del governo Monti – che includeva oltre agli immobili anche le concessioni e le partecipazioni – prevedeva un incasso di 9,8 miliardi l’anno, circa la metà di quanto prevede il governo Conte. Naturalmente neppure Monti riuscì a vendere tutte quelle caserme.