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La mezzanotte di fuoco dei dazi si avvicina. Ma ora l’Europa spera in negoziati con Trump

Mariarosaria Marchesano

Gli effetti del nuovo protezionismo secondo tre grandi operatori: Pictet, Moneyfarm e Intesa Sanpaolo. L’azionario mondiale potrebbe scendere del 15-20%

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L’ora X scatterà a mezzanotte di venerdì 6 luglio. Dazi e controdazi, in una sorta di micidiale incrocio da Usa e Cina, entreranno in vigore su una prima tranche di merci per 34 miliardi di dollari per poi essere estesa a quantità sempre maggiori di beni fatti di acciaio e alluminio (al momento si è fermata a 450 miliardi di dollari l’asticella fissata dal presidente Trump). Non è ancora chiaro se il governo di Pechino userà il vantaggio a suo favore del fuso orario (12 ore) per sferrare il primo colpo oppure se preferirà aspettare che sia Washington a dare il via a quella che di fatto è una pausa (allarmante) del libero mercato nel commercio mondiale. Un processo che coinvolge anche l’Europa seppure in misura minore rispetto alla Cina ma abbastanza da aver mandato in tilt le Borse del vecchio continente nei giorni scorsi (in particolar modo quella di Francoforte preoccupata dalle ripercussioni del nuovo protezionismo sul mercato delle auto tedesco). Ma la grande paura sembra già passata ora che si sta diffondendo l’ipotesi che il governo americano potrebbe adottare una linea soft per il vecchio continente e non solo. L’idea sarebbe quella di proporre un negoziato multilaterale ai paesi esportatori europei coinvolgendo anche Giappone e Corea del Sud. L’ennesima boutade di Trump? Per ora i mercati finanziari ci stanno credendo. Wall Street ha aperto oggi (5 luglio) in forte rialzo trasmettendo fiducia a tutti i listini europei. In attesa di sviluppi, è interessante notare come sentiment e previsioni dei grandi investitori sull’aumento delle tariffe possano essere molto diversi tra loro.

 

Troppi tweet di Trump confondono le Borse

Prendiamo uno studio appena pubblicato da Moneyfarm, gruppo internazionale di investimenti online fondato nel 2011 da Giovanni Daprà e Paolo Galvani. Sulla questione dei dazi, le perplessità più giustificate sarebbero rappresentate dalla “strategia negoziale e comunicativa” dell’amministrazione Trump, che troppo spesso si affida ad azioni estemporanee via Twitter piuttosto che ad un piano ben definito. In altre parole: il governo americano pur avendo uno scopo ben chiaro (ridurre il deficit commerciale e favorire il ritorno delle aziende negli Stati Uniti), non sa comunicarlo e così finisce col trasmettere un messaggio confuso ai mercati che poi reagiscono in modo nervoso. Come spiega Roberto Rossignoli, portfolio manager di Moneyfarm, “questo vale non solo per il commercio ma anche per altre importanti iniziative politiche come la presunta volontà, ancora non del tutto chiarita dell’amministrazione, di mettere in atto dei controlli sugli azionisti cinesi di alcune società americane che operano in settori considerati strategici”. Per questa ragione, “non sorprende che il livello di incertezza riguardo alla situazione commerciale abbia raggiunto i massimi dal 1994”. “Anche la minaccia non troppo velata di nuove iniziative, in settori importanti come quello dell’automotive, non aiutano a distendere il clima, soprattutto con partner storici come l’Unione Europea, Canada e Messico”, continua Rossignoli, il quale però conclude la sua analisi dicendo che è esagerato parlare di “guerra commerciale” (visione catastrofista) mentre sarebbe più corretto riferirsi a “tensioni commerciali”. Fatta questa precisazione, lo studio di Moneyfarm spiega che le misure prese finora coprono solo una parte marginale del commercio mondiale. Per quanto riguarda l’Unione Europea, i dazi imposti su alluminio e acciaio riguardano meno del 3% del totale delle esportazioni verso gli Stati Uniti. Importante notare, infine, come il commercio globale goda di ottima salute.

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Mercati azionari indietro di tre anni 

Peccato che tra i “catastrofisti” ci sia la cancelliera Angela Merkel che due giorni fa ha parlato apertamente del rischio di una “guerra commerciale” in una seduta alla Camera dei deputati tedesca. In questo caso, quali sarebbero le conseguenze? Per Pictet asset management, colosso che gestisce a livello mondiale patrimoni per 440 miliardi di euro, la questione sembra sia più di sostanza che di forma. “Gli effetti di una guerra commerciale su vasta scala si estenderanno ben oltre gli Stati Uniti e la Cina, minacciando stagflazione in tutto il mondo”, spiega lo chief strategista Luca Paolini in un report dal titolo suggestivo (“Un gioco a somma zero”). “Il nostro modello, basato sulle stime del Fondo monetario internazionale”, ragiona Paolini, “mostra che se una tariffa del 10% sul commercio statunitense venisse completamente trasferita al consumatore, l’inflazione globale aumenterebbe di circa lo 0,7%. Questo, a sua volta andrebbe a impattare sugli utili e i sui multipli delle società e l’azionario mondiale potrebbe scendere del 15-20% riportando indietro di tre anni le lancette del tempo. In simili circostanze, ne risentirebbero maggiormente le azioni degli esportatori cinesi e le azioni cicliche statunitensi, in particolare settori costosi come i beni voluttuari. La conclusione di Pictet è che in una eventuale guerra commerciale (“in cui non vince mai nessuno” per dirla con il direttore dell’Fmi, Christine Lagarde) l’impatto si farebbe sentire ben oltre le due maggiori economie del mondo. E alcune economie aperte come Taiwan, Corea del Sud e Singapore, in Asia, e Ungheria, Repubblica Ceca e Irlanda, in Europa, potrebbero essere più vulnerabili di Usa e Cina.

 

Che cosa succede in Europa

Anche secondo la direzione studi e ricerche di Intesa Sanpaolo “i rischi di una vera guerra commerciale sono molto aumentati, con potenziali ripercussioni negative sulla crescita 2019-20”, come riportato in un’analisi di scenario di fine giugno. “È ancora difficile valutare quali potrebbero essere le ripercussioni dell’aumento delle barriere tariffarie sull’export europeo”, spiegano gli analisti, “Per il momento i dazi sono stati applicati solo ad acciaio (25%) e alluminio (10%) e l’effetto diretto dovrebbe essere contenuto dal momento che la categoria merceologica colpita rappresenta solo lo 0,3% del totale dell’export dell’area”. Tuttavia, si precisa sempre nella ricerca di Intesa, gli effetti della deriva protezionistica non passano solo attraverso la compressione dell’export, ma anche attraverso il calo di fiducia delle imprese, come del resto si è verificato in questi mesi a ridosso di annunci dell’amministrazione americana di possibili aumenti dei dazi. Inutile dire che in caso di aumento delle tariffe su altre categorie di prodotti, l’effetto complessivo sarebbe più ampio. “Se già l’aumento delle tariffe fosse esteso al comparto auto, come minacciato, l’impatto sull’economia tedesca sarebbe nell’ordine di 0,2%. Il Fondo monetario stima che un aumento del 10% delle tariffe su tutti beni importati negli Stati Uniti (2,3 trilioni di dollari) potrebbe deprimere la crescita mondiale dello 0,5%. Le stime della Bce sono anche più aggressive: -1% di crescita mondiale.

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