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La dottrina (puntualmente sbagliata) di Roventini, il non-ministro del Tesoro grillino

Renzo Rosati

Ideologia anti Marchionne e statalismo assistenziale mascherato con lo stato innovatore

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“La recente divisione tra Fiat Auto e Fiat Industrial e l’interesse ad acquisire una quota di maggioranza nella Chrysler segnalano che le priorità della Fiat sono sempre più orientate verso la dimensione finanziaria, a cui potrebbe essere sacrificata in futuro la produzione di auto in Italia e la stessa proprietà degli stabilimenti”. “L’accordo concluso da Fiat con Film, Uilm e Fimsic, che la Fiom ha rifiutato di firmare, prevede un vago piano industriale, poco credibile sui livelli produttivi, tanto da rendere improbabile ora ogni valutazione sulla produttività. Appare inadeguato a rilanciare e qualificare la produzione e scarica i costi sul peggioramento delle condizioni dei lavoratori”. “La strategia Fiat appare come la gestione di un ridimensionamento produttivo in Italia”. “Ci auguriamo che la Fiat rinunci a una strada che non porterebbe risultati economici ma un inasprimento dei conflitti sociali”. Domanda: chi, l’8 gennaio 2011, sul Manifesto, sottoscriveva questo documento-invito a sostenere la campagna anti-azienda (proseguita fino alla Corte costituzionale) della Fiom di Maurizio Landini? Beh, visti i precedenti nella scelta dei non-ministri di Luigi Di Maio, la risposta non è difficile: si tratta di Andrea Roventini, professore associato alla Sant’Anna di Pisa, il fenomeno “che ha l’età di Macron ma già scrive con un premio Nobel che è Stiglitz” (Di Maio a Uno Mattina), designato dal capo politico dei 5 stelle quale futuro ministro dell’Economia.

 

A dispetto, o forse a causa della corrispondenza vantata con Joseph Stiglitz, che il premio l’ha vinto nel 2001, ha poi appoggiato movimenti come Occupy Wall Street e si è augurato e previsto la fine dell’euro e il crac dell’eurozona – nessuno è perfetto, neppure i Nobel – Roventini sulla Fiat, oggi Fca, non ne ha azzeccata una. Vediamo i fatti, per dirla con i firmatari. Ingresso in Chrysler, scelta della finanza e sacrificio della produzione italiana con cessione degli stabilimenti: l’acquisto della casa americana, avviato con i prestiti della Casa Bianca di Barack Obama in collaborazione con il sindacato americano dell’auto (Union of auto workers che vi ha impegnato il proprio fondo previdenziale), e perfezionato nel 2014 con la restituzione totale di quanto ricevuto e un ricco guadagno da parte della Uaw, ha consentito la quasi saturazione della produzione in Italia. Soprattutto grazie alla produzione di Jeep (Renegade e poi Compass), esportate da Melfi nel resto del mondo. Di fatto le auto fabbricate in Italia sono salite da 518 mila del 2011 (più 228 mila veicoli commerciali Ducato) a oltre un milione nel 2017.

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Punto due. Piano poco credibile sulla produttività. Lo stabilimento di Pomigliano, per molti anni il peggiore d’Europa con assenteismo superiore al 40 per cento, è stato premiato per due anni di seguito come sito più produttivo del continente in base agli standard World Class Manufactoring. Strano che Luigi Di Maio che proprio a Pomigliano è candidato, non se ne sia accorto. Che Roventini non glielo abbia detto. Che lui non ne abbia parlato con il futuro ministro. O magari quest’ultimo ha gettato nel cestino la profezia di sette anni fa?

 

Proseguiamo. Il documento annuncia il “peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori”. Sono peggiorate talmente che da anni i dipendenti italiani di Fca ricevono un bonus che per il 2017 (deliberato a febbraio scorso) ha oscillato tra 1.320 e 1.580 euro. Ma nel testo Roventini c’è anche un’affermazione surreale: “L’occupazione Fiat a livello mondiale è scesa da 74 mila a 54 mila addetti e di questi appena 22 mila lavorano nelle fabbriche italiane”. Da dove Roventini trae questi dati? Fca ha oggi in Italia 86 mila dipendenti (fonte Fim), e anche tenendo conto di alcune migliaia di assunzioni fatte da Marchionne è incredibile che qualcuno abbia sottoscritto che nel 2011 ne aveva 22 mila. A livello mondiale sono 234.500, con Chrysler ovviamente. E sempre per inciso, a proposito di “dimensione finanziaria”, il gruppo ha quasi azzerato i debiti. Vabbè, fermiamoci qui. Presentandosi sul Sole 24 Ore, il fenomeno si dichiara allievo di Giovanni Dosi, direttore del suo istituto. Difatti anche la firma di Dosi è tra quelle sull’appello anti-Fiat. Dosi, che vanta anche la qualifica di condirettore della “task force di politica industriale alla Columbia University”, è il vero ispiratore della linea economica grillina, a cominciare dal reddito di cittadinanza. Assieme a docenti come Marianna Mazzucato, è un teorico della cosiddetta democrazia economica colorata, partecipata, dal basso. Le ricette? Un nuovo Iri, finanziato dai contribuenti, e una nuova banca centrale, sempre a carico del bilancio pubblico. Bello no? Intanto, complimenti a Roventini: per il fiuto. Da Nobel.

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