Cosa c'entrano riforma Fornero e fine del Jobs Act con la disoccupazione calante

Francesco Seghezzi

Guardare all’età degli occupati e la qualità dei contratti per interpretare i dati dell'Istat

Che l’Italia stia vivendo una fase di crescita occupazionale è un dato innegabile, e i dati trimestrali diffusi martedì dall’Istat lo confermano (tasso di disoccupazione all’11,2 per cento, il livello più basso dal terzo trimestre 2012). Ma interpretarne la natura e la qualità è una operazione complessa, anche perché occorre allontanare un po’ il punto di osservazione e indagare l’andamento degli ultimi anni.

 

Non si tratta di un esercizio accademico ma di una attività che consente, in parte, di valutare l’efficacia delle politiche messe in atto. In particolare sono due gli elementi di criticità che emergono e li ha ben individuati il professor Marco Fortis nei suoi recenti interventi su questo quotidiano: l’età degli occupati e la qualità dei contratti.

 

Il fronte più aperto è sicuramente il primo perché mette indirettamente a confronto gli effetti della riforma Fornero e quelli del Jobs Act. La criticità nasce dal fatto che la stragrande maggioranza dei nuovi occupati sembrerebbe composta da lavoratori over 50, dato che caratterizzerebbe la crescita come non omogenea e non strettamente connessa alla ripresa economica. La spiegazione che viene data è che corso degli ultimi anni la popolazione anziana è aumentata mentre quella delle coorti più giovani diminuita, generando quindi un’illusione ottica. Ma questo non basta a spiegare il forte aumento di occupati over 50, sostenere che tutto è conseguenza della “scomparsa” dei giovani è solo una mezza verità. Infatti basta analizzare i tassi di occupazione, che tengono conto dei cambiamenti demografici poiché si basano sulla popolazione nella coorte, per vedere come tra il febbraio 2014 e luglio 2017 siano sì cresciuti in tutte le fasce d’età comprese (negli ultimi mesi) quelle più giovani, ma in misura molto differente.

 

Se, ad esempio, nella fascia 25-34 siamo passati dal 59,3 al 61,3 per cento (rispetto al 70,4 del 2007), nella fascia d’età 50-64 il tasso di occupazione è salito dal 53,9 per cento al 59,2, mostrando una crescita molto più elevata. Analizzando poi tutti i nuovi occupati dal 2013 – anno in cui la riforma Fornero ha iniziato a dare i suoi effetti – ad oggi, e purificandoli dalla componente demografica, ci si accorge che il 51 per cento fa parte della coorte degli over 50 mentre solo il 22 della coorte 15-34 anni.

 

Questo significa che anche considerato l’effetto demografico, oltre la metà dei occupati risultanti dalle statistiche è molto probabilmente composta da lavoratori che sarebbero andati in pensione con le vecchie norme previdenziali e che ora restano al lavoro per qualche anno in più, e non da nuovi occupati.

 

Il dato spiega inoltre anche l’aumento dell’occupazione femminile oltre che in buona parte il calo degli inattivi, categoria nella quale statisticamente rientrano i pensionati (che, ha ricordato ieri l’Istat, sono diminuiti di 146 mila unità nell’ultimo anno) e soprattutto spiega il forte aumento di contratti a tempo indeterminato. Questi sicuramente sono stati agevolati dalla decontribuzione, ma se analizziamo i tassi di lavoratori permanenti divisi per fascia d’età vediamo come questo sia cresciuto in misura molto maggiore per i lavoratori over 50 e solo in minima parte (qualche zero virgola) per gli under 35.

 

Sembra quindi, con le dovute cautele, che siamo di fronte a una ripresa occupazionale che è determinata solo in parte da una rinnovata domanda delle imprese. In larga parte è invece composta da conseguenze della modifica dei requisiti previdenziali, pur essendo questa una buona notizia visto che abbiamo finalmente raggiunto i livelli occupazionali degli over 50 propri delle medie europee. Il secondo elemento di criticità è quello relativo alla qualità dei contratti. Tra il febbraio 2014 e luglio 2017 infatti i contratti a termine sono cresciuti a una velocità molto più sostenuta di quelli permanenti (21 per cento contro il 4 per cento) e soprattutto sono tornati a rappresentare quasi l’80 per cento dei nuovi contratti (di cui un buon numero part-time), dopo la fine della decontribuzione. Questo dato non può essere spiegato dal calo dei lavoratori indipendenti, infatti il loro numero si è ridotto di 132 mila unità da febbraio 2014, mentre gli occupati a termine sono aumentati di 486 mila. Più probabile che si tratti della conferma di un trend che prosegue ormai da anni e che la costosa decontribuzione non ha saputo invertire strutturalmente. Ossia di una curvatura delle carriere lineari e della fine del posto fisso. Fine determinata sia dalle esigenze dei lavoratori ma soprattutto da quelle delle imprese che sono sottoposte oggi a dinamiche di competitività e di durata dei cicli di vita dei prodotti molto diverse rispetto al passato. Anche in questo caso non si tratta di un trend da negare, ma basterebbe prenderne atto e muoversi di conseguenza, investendo sulle politiche attive ad esempio, che aiutano i lavoratori nelle transizioni o sulla formazione, vera tutela nel mercato del lavoro di oggi.

 

Un macigno che pesa il 38 per cento

 

In ultimo non dimentichiamo che tutto quello di cui stiamo discutendo sembra un piccolo problema paragonato a un dato diffuso ieri dall’Istat che pesa come un macigno: in Italia lavora solo il 38 per cento della popolazione residente.

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