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La visione capovolta. Il pessimista collettivo non vede la ripresa

Marco Fortis

Un mercato del lavoro efficiente è essenziale in fase di ripresa, purché la si colga. Ovvero il refrain del "precariato" deve finire. I media faticano a riconoscere i progressi reali non soltanto nella manifattura ma anche e soprattutto nel terziario. Eccoli

Mentre i media e anche diversi economisti sembrano molto timidi nel riconoscere che è finalmente in atto una vera ripresa dell’economia italiana, si continuano a proporre vecchi e superati schemi di analisi per enfatizzare presunte fragilità del nostro sistema produttivo e sociale (senza invece vedere che le nostre palle al piede sono altrove, a cominciare da burocrazia e servizi pubblici locali, specie da Roma in giù). Noiosissimo e infondato è il refrain sulla presunta carenza di competitività della nostra manifattura per spiegare perché resteremmo il “fanalino di coda” in Europa quanto a crescita del pil: il che è falso, perché l’industria italiana in realtà sta andando molto forte (come hanno evidenziato anche i dati di Markit di agosto) e il commercio estero pure. Insopportabile è anche il continuo piagnisteo sul turismo, il quale non starebbe “al passo” con i paesi concorrenti, quando è invece in atto in Italia un autentico boom delle presenze alberghiere e nei ristoranti (boom che probabilmente non è nemmeno catturato completamente dalle statistiche di contabilità nazionale per via del sommerso, soprattutto al sud).

     

E ancora, nonostante che il numero totale degli occupati sia tornato ai livelli del 2008, c’è un lamento, quasi corale, sulla “flessibilità” intesa come fonte di “precarietà” (come ha stigmatizzato qualche giorno fa il direttore Claudio Cerasa) e sul supposto crollo “storico” dei posti di lavoro nelle fasce di età più giovani, in particolare nella coorte 25-34 anni, giudicata persino più penalizzata di quella 15-24 anni. Tutto ciò, secondo molti, sarebbe colpa della riforma Fornero e di un mercato del lavoro fatto sempre più su misura per gli anziani (quei “dannati” over 50… che ruberebbero il posto ai più giovani). Ma è possibile che nessuno, salvo qualche ricercatore dell’Istat o qualche isolato commentatore come Giuliano Cazzola su queste colonne, si sia accorto che se dal 2004 ad oggi vi sono 1,9 milioni di occupati in meno tra i 25-34enni è solo perché anche la popolazione di 25-34enni è contemporaneamente diminuita per cause demografiche di 1,9 milioni di persone, cioè della stessa precisa entità? Ed è mai possibile che nessuno dica chiaramente che se i posti di lavoro dipendenti a termine negli ultimi mesi stanno crescendo parecchio (che c’è di male? E’ la ripresa…) è soprattutto perché stanno sostituendo quelli indipendenti spazzati via dalla crisi e non perché fanno concorrenza e riducono quelli dipendenti a tempo indeterminato, i quali grazie a decontribuzioni e Jobs Act sono tornati anch’essi ai livelli del 2008?

   

Senza capire l’evoluzione dell’economia, purtroppo, non si capisce nemmeno l’evoluzione del mercato del lavoro e viceversa, facilitando/innescando letture “politiche”, in genere demagogiche o populiste, della realtà. E c’è una importante parte del sistema economico italiano, quella dei servizi, che purtroppo è ancor meno analizzata e valutata correttamente dell’industria (che lo stereotipo vuole perennemente “fragile”). Dei servizi, semplicemente, quasi non si parla. Eppure, l’Istat ormai mette a disposizione una enorme quantità di statistiche su di essi, a cominciare da quelle sul fatturato totale e dei diversi comparti del terziario, che possono aiutare parecchio a comprendere come si sta realmente modificando l’economia italiana e anche perché il mercato del lavoro chiede sempre più flessibilità (non precarietà). Dietro a tutto ciò vi sono cambiamenti strutturali del nostro sistema produttivo e della nostra società che la grande crisi ha accelerato.

   

http://www.ilfoglio.it/http://www.ilfoglio.it/economia/2017/04/28/news/numeri-alla-mano-la-ripresa-italiana-si-sta-rafforzando-132128/

  

Intanto va sottolineato che l’indice Istat del fatturato totale dei servizi – che non comprende il commercio al dettaglio e il sistema finanziario – mentre comprende le vendite di auto, nel secondo trimestre 2017 è cresciuto cumulativamente del 6,2 per cento rispetto al primo trimestre 2014, secondo i dati destagionalizzati. I servizi non finanziari, questa è la prima cosa da sottolineare, vanno molto meglio non solo delle banche ma anche del commercio al dettaglio (cresciuto solo dell’1,3 per cento da inizio 2014 a giugno 2017). Ciò per il semplice motivo che gli italiani oggi consumano più servizi e meno beni rispetto a dieci anni fa, in particolare meno beni tradizionali di abbigliamento e per la casa. La crisi ha cambiato i modelli di consumo delle famiglie. Le quali, oltre a spendere di più per smartphone, ristoranti e vacanze stanno anche comprando molte auto (ma queste, appunto, non sono incluse nel debole indice del commercio al dettaglio bensì nell’indice dei servizi).

    

La seconda cosa importante è capire quali servizi tirano di più e quali arrancano. Per fare una analisi disaggregata di ciò che è avvenuto negli ultimi tre anni nel settore terziario italiano, in mancanza di dati destagionalizzati sui singoli settori, dobbiamo inevitabilmente confrontare gli indici grezzi del secondo trimestre 2017 con quelli del secondo trimestre 2014. E’ una comparazione parziale ma comunque utile, dalla quale emergono diverse indicazioni interessanti. Infatti, ci sono servizi che vanno molto bene, in particolare le attività di ricerca del personale: più 53,4 per cento tendenziale su tre anni. E non potrebbe essere altrimenti dato che in molte aree del nord-centro si fa sempre più fatica a trovare giovani disposti a lavorare nell’industria nelle fasi di picco della produzione. In più mancano tecnici, apprendisti e persino manodopera immigrata, visto che, per fare un esempio, tra Milano e Novara questa estate le agenzie e le cooperative di lavoro hanno dovuto addirittura “bussare” ai centri di accoglienza dei rifugiati per trovare qualcuno disposto a fare il pulitore di metalli o a lavorare in fonderia nell’attuale fase di accelerazione dell’attività manifatturiera.

   

  

Poi c’è il boom del turismo: più 9,5 per cento il fatturato dei servizi di alloggio e più 7 per cento quello della ristorazione su tre anni. E anche in questo caso c’è molta richiesta di lavoro flessibile, guai a scambiarlo per odiosa precarietà. Ci sono piccole attività familiari di vitto e alloggio che hanno comprensibili punte di domanda nei week end (punte quest’anno particolarmente intense già sin dall’inverno) e che, non potendo assumere collaboratori a tempo pieno per poi tenerli inattivi nei giorni feriali, ricorrevano ai voucher (lo stesso facevano anche parrucchiere, piccoli negozi, giardinieri, ecc.). Non c’era niente di odioso in ciò, anche se i poveri voucher sono stati massacrati e aboliti. La flessibilità crea lavoro, non precarietà: crea reddito e questo a sua volta crea consumi e investimenti aggiuntivi, nonché posti di lavoro “pregiati” a tempo pieno in altri settori, magari nella manifattura o in altri ambiti nel terziario. Tutto in economia è legato. La crescita fa bene e possiede i suoi sani moltiplicatori. Vanno evitati – è chiaro – gli abusi e le irregolarità nel mercato del lavoro (come accade spesso nell’edilizia o con il caporalato agricolo). Ma la crescita, che nella società odierna ha sempre più bisogno di flessibilità, non va mai ostacolata. Non siamo più ai tempi dei bambini nelle miniere: siamo nel 2017 e serve tanta modernità (non certo il “sindacalismo collettivo”) per non perdere opportunità e occasioni di sviluppo e innovazione che non hanno niente di “incivile”.

   

 

Molta crescita si è registrata durante gli ultimi tre anni anche nel commercio di autoveicoli: più 43,7 per cento il fatturato tra il secondo trimestre 2014 e il secondo trimestre 2017. Bene anche le attività di consulenza gestionale (più 8,6 per cento), di produzione di software (più 8,7 per cento), di magazzinaggio (più 8,1 per cento), del trasporto terrestre (più 6,3 per cento), del commercio all’ingrosso di Ict (più 17,1 per cento), di macchinari e attrezzature (più 18,9 per cento) e di alimentari e bevande (più 9,5 per cento). Arretrano invece editoria, telecomunicazioni, attività legali, di pulizia e di vigilanza, i tour operator, il commercio all’ingrosso di materie prime agricole, mentre stanno sperimentando una dinamica sotto la media trasporto aereo, architettura e ingegneria, pubblicità e ricerche di mercato, intermediari del commercio e commercio all’ingrosso di beni di consumo finale. Nella ripresa italiana ci sono stati settori vincenti e perdenti: non solo nella manifattura ma anche e soprattutto nel terziario.

  

In conclusione, per capire davvero la svolta in corso della nostra economia, per comprendere anche come accompagnare con interventi di politica economica mirati l’evoluzione del mercato del lavoro e accentuarne le positività, non si può assolutamente prescindere dai grandi cambiamenti che si stanno verificando nel nostro settore dei servizi. Il quale, assieme all’industria (che a dispetto dei critici sta correndo persino di più di quella tedesca), ci sta tirando finalmente fuori dalla palude della recessione.